Israele è uno dei Paesi più avanzati del mondo dal punto di vista tecnologico. Risultati ottenuti solo grazie alla diffusione di una cultura di massa, capace di misurarsi con le grandi incognite della scienza contemporanea. Come fanno, allora, i suoi dirigenti a non vedere quel fossato crescente, quella voragine che, giorno dopo giorno, si apre nei confronti dell’universo che li circonda? Gianfranco Polillo spiega perché questo è il momento per pensare a una soluzione pacifica e perché bisogna fare in fretta nel consentire che si possano gettare le basi per una futura convivenza tra i due popoli
Ma veramente l’ipotesi dei due Stati – Israele e Palestina – è solo una pia illusione? Una sorta di trastullo con cui la diplomazia di mezzo mondo si è baloccata per oltre 30 anni, ben sapendo che quella era “l’isola che non c’è”. Così almeno dixit Robert Malley nella sua intervista a Il Corriere, che anticipava le tesi del suo ultimo libro “Tomorrow is Yesterday”, scritto in collaborazione, con un altro mostro sacro della questione palestinese, Hussein Agha. Entrambi soggetti attivi in quel lungo processo storico che aveva inutilmente tentato di porre fine ad una delle più gravi ingiustizie del ‘900. Da un lato l’Olocausto, da cui tutto era derivato; dall’altro la vita di un popolo, quello palestinese, di cui per molti anni si è anche tentato di negare l’esistenza.
La stanchezza di chi ha tanto combattuto e si è speso per realizzare qualcosa che almeno potesse deviare il ricorso brutale della guerra è più che comprensibile. A volte capita che non si possa dominare una realtà molto più grande di noi. E che questo senso di impotenza si traduca in un più generale abbandono. Ma quale può essere allora la possibile soluzione? “La stragrande maggioranza dell’opinione pubblica in Israele – dice ad un certo punto della sua intervista Malley – è contraria ad uno Stato palestinese”. Per poi aggiungere che la priorità più urgente è “fermare i massacri di Gaza”. A quell’obiettivo dovrebbero tendere gli stessi Paesi europei, che vagheggiano l’esistenza dei due Stati, “per poi pensare a come israeliani e palestinesi possano coesistere.”
Il pensiero, come si può osservare, non è del tutto chiaro. Ed almeno noi non lo abbiamo capito. La sensazione è che si voglia dire un no, ma senza essere in grado di prospettare una reale alternativa. Ipotesi difficile solo da immaginare. La verità è che nel mondo arabo una soluzione può essere solo multitasking. Qualcosa si era visto nel momento in cui erano stati sottoscritti gli accordi di Abramo, tra la stessa Israele ed una parte consistente di quel mondo. Ma poi, forse anche per questo, Hamas, braccio armato degli sciiti, aveva colpito con il massacro del 7 ottobre.
Se questa è stata la genesi di un disastro, che ha mietuto vittime innocenti sia tra gli israeliani che tra i palestinesi, allora il fermare i massacri di Gaza non può che richiedere una convergenza più forte. E la definizione di un obiettivo unificante. Che non riguardi solo il mondo arabo, la cui disponibilità verso quella soluzione e l’avversità contro Hamas si sono già palesate, ma l’intero Occidente. Non solo i Paesi europei, ma soprattutto gli Stati Uniti di Donald Trump che sono oggi il supporto principale di Benjamin Netanyahu. A sua volta assediato da un governo in cui gli oltranzismi di varia natura (religiosi, nazionalisti, espansionisti) hanno un peso determinante.
Israele è uno dei Paesi più avanzati del mondo dal punto di vista tecnologico. Risultati ottenuti solo grazie alla diffusione di una cultura di massa, capace di misurarsi con le grandi incognite della scienza contemporanea. Come fanno, allora, i suoi dirigenti a non vedere quel fossato crescente, quella voragine che, giorno dopo giorno, si apre nei confronti dell’universo che li circonda? Nel 1980 il rapporto tra gli abitanti di quel piccolo Paese ed il restante mondo arabo era di 6 contro 100. Lo scorso anno, secondo i dati del Fmi quel rapporto era sceso a 3,9 contro 100. Senza contare poi che questi calcoli si riferiscono agli abitanti di Israele, compresi quindi coloro che abitano Gaza e Cisgiordania: a loro volta arabi ed in prevalenza musulmani.
Certo, oggi, Israele può contare sul sostegno americano. Ma fino a quando? Anche l’Europa, in passato, viveva in un ventre di vacca. Poi gli elettori hanno scelto Donald Trump ed il mondo è cambiato. Si calcola che gli ebrei nel mondo siano poco più di 14 milioni di persone, di cui la metà vive in Israele. A livello internazionale, la loro prevalenza è nell’upper class. Il loro peso è quindi di gran lunga superiore al loro numero. Il che offre margini maggiori, ma non fino al punto da stravolgere la demografia. Lungimiranza vorrebbe, allora, che di questa complessa situazione se ne tenesse il giusto conto: facendo oggi quello che sarà più difficile fare domani.
Il territorio di Israele, comprese le alture del Golan, occupate militarmente dopo la guerra del Kippur del 1973 e mai restituite ai legittimi titolari (Siria), è pari a poco più di 22mila kilometri quadrati. Un territorio grande come l’Emilia-Romagna o la Toscana. È composto dallo Stato di Israele, vero e proprio, dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania. Territorio, quest’ultimo che gli accordi di Oslo, che avevano portato al riconoscimento dell’Autorità palestinese, avevano diviso in tre parti.
Una prima parte (A), pari al 18% del territorio complessivo, completamente gestita dai Palestinesi. Una seconda (B), pari al 22%, a mezzadria: con il governo di Tel Aviv che era garante della sicurezza, mentre alcune funzioni amministrative erano delegate all’Autorità. Ed infine una terza parte (C), pari al 60% del territorio complessivo, sottoposto alla giurisdizione esclusiva del governo. Una sorta di ircocervo, come si vede, caratterizzato da una frammentazione destinata a favorire il continuo diffondersi di nuovi insediamenti da parte dei coloni israeliani. Nonostante la generale condanna dell’opinione pubblica internazionale e le rimostranze dello stesso Onu.
Solo tirando le somme, è possibile scoprire le contraddizioni che hanno da sempre caratterizzato la realtà di quelle terre. In teoria gli abitanti di Israele sono meno di 10 milioni: di cui 6,6 ebrei, 2,08 musulmani e poco più di 500 mila di altre religioni (drusi, cristiani e via dicendo). Sennonché solo a Gaza vi sono 2 milioni di abitanti, mentre gli arabi della Cisgiordania sono pari ad altri 2,5 milioni. La relativa somma (4,5 milioni) supera ampiamente il dato certificato. Senza tener conto, per altro, degli altri 5 milioni di Palestinesi dispersi nei campi profughi dei Paesi vicini: Siria, Giordania e Libano.
Rimanendo alle cifre ufficiali, gli ebrei, che sono il 60% della popolazione occupano circa il 93% della superficie di Israele. Mentre gli arabi, che sono pari ad 40% teorico, solo il 7%. Qualora si attribuisse tutta la Cisgiordania ai Palestinesi la prima percentuale scenderebbe dal 93% del territorio al 75%. Percentuale che potrebbe ulteriormente aumentare ipotizzando una compensazione con Gaza. Il tutto a dimostrazione che non esistono macigni inamovibili alla realizzazione dei due Stati.
O meglio questi impedimenti esistono, ma sono tutti di natura politica. E a quanto sembra destinati a diventare sempre più pesanti con il trascorrere del tempo. I due Stati, se mai verranno alla luce, non potranno che essere il parto di una visione laica, che batta gli opposti fondamentalismi rappresentati da un lato da Hamas ed i suoi seguaci; dall’altro dagli ebrei ortodossi, gli Haredim, che rifiutano ogni genere di convivenza con i diversi. Si tratta di una comunità composta da più di 1 milione di individui, che vivono secondo i più stretti precetti dell’ebraismo militante. Quindi ben poco propensi a prendere in considerazione le ragioni degli altri.
La crescita demografica di questa comunità (un numero di figli doppio rispetto alla media) è impressionante. Il “The Israel Democracy Institute” ha calcolato che nel 2050, essa sarà più numerosa della stessa popolazione araba residente in Israele. Con la conseguenza di rendere estremamente più difficile la realizzazione di un qualsiasi compromesso con gli esponenti di altre religioni. Forse anche solo di altri riti. Per questo bisogna fare in fretta. C’è ancora una finestra che può consentire di gettare le basi per una futura convivenza. Rischia però di chiudersi relativamente presto. Con quali conseguenze è facile immaginare.