In Europa Pechino spedisce migliaia di lavoratori per realizzare fabbriche di batterie da mettere al servizio dei propri costruttori, spingendo le case occidentali alla rincorsa e aumentando la dipendenza del Continente dal Dragone. In patria, poi, si installano milioni di pannelli, ma poi mancano le infrastrutture e la rete per superare il carbone
La transizione sì, ma a spese degli altri. L’idea che il mondo si è fatto è che la Cina sia il motore della sostenibilità globale, il cuore pulsante della svolta energetica. E questo per un motivo molto semplice: il Dragone è il principale produttore mondiale di componentistica per le rinnovabili. Non c’è mercato al mondo che per via diretta o indiretta non si rifornisca dalle imprese cinesi. Eppure, a un occhio più attento, non possono sfuggire alcune contraddizioni. Per esempio, il fatto che in questi mesi Pechino stia inviando in Europa migliaia di lavoratori per costruire fabbriche di batterie per auto all’avanguardia. Ma non per le case europee, bensì per Byd. Dunque, per la stessa Cina, che proprio grazie al principale costruttore di auto elettriche mondiale sta colonizzando l’Europa.
Emblematico il caso della cugina di Byd, Catl, il maggior produttore di batterie del globo. Proprio il colosso del Fujian ha deciso in queste settimane di spedire oltre 2 mila lavoratori per costruire e allestire un impianto di batterie da 4 miliardi di euro in Spagna in una joint venture con Stellantis. Una mossa espressione della strategia del presidente cinese Xi Jinping di promuovere la dipendenza straniera dalla produzione cinese di fascia alta, che Pechino vede come una fonte di leva strategica.
Eppure, come racconta il Financial Times, la stessa Catl si è rifiutata di condividere i suoi segreti industriali, prediligendo semmai il reclutamento e la formazione dei lavoratori locali per gestire la fabbrica spagnola una volta costruita, come ha fatto in un impianto di batterie in Germania che ha iniziato la produzione nel 2022. Insomma, da una parte Pechino continua nella sua opera di infiltrazione in Europa, velocizzando la costruzioni di impianti e stabilimenti connessi alla filiera dell’auto elettrica. Dall’altra però, lo fa a discapito dell’economia locale con forza lavoro cinese e drenando concorrenza, visto che notoriamente macchine e batterie cinesi costano molto meno rispetto a quelle occidentali.
Un canovaccio, quella di una transizione decisamente opaca, che vale anche in casa propria. Qui però si parla di pannelli solari, anche se la sostanza, mette nero su bianco un report del Bruegel, non cambia. La Cina che ha la maggior capacità di potenza installata, manca di sufficienti infrastrutture per progetti rinnovabili. “La Cina deve aumentare gli investimenti nelle infrastrutture energetiche per ridurre la dipendenza da fonti energetiche ad alta intensità di carbonio. Ciò creerebbe un nuovo slancio di crescita per contrastare il calo degli investimenti nella produzione di apparecchiature e nella costruzione di progetti per le energie rinnovabili”.
Dunque? Pechino “deve incrementare gli investimenti nella rete elettrica nazionale per aumentare la capacità di trasmissione di energia. Questo processo è già iniziato, con investimenti nella rete elettrica che aumenteranno a 608 miliardi di renminbi nel 2024, dai 528 miliardi di renminbi del 2023, e continueranno a crescere del 12% su base annua nei primi sette mesi del 2025. Con una domanda di energia elettrica prevista in crescita del 50% entro il 2050 e la necessità di migliorare la trasmissione di energia da ovest a est, la Cina potrebbe dover raddoppiare gli investimenti nella sua rete elettrica entro il 2030 per colmare il divario”. Già, ma finora?