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Resa dei conti a Mosca. Una manovra lacrime e sangue per Putin

Il bilancio 2026 della Federazione sconterà, per la prima volta, l’impatto delle sanzioni e delle minori entrate da petrolio e gas. Tradotto in parole semplici, spesa miliare ridotta, meno crescita e più tasse per tutti. Per Mosca è dunque arrivato il momento di fare i conti con la realtà. Anche perché la Cina non basta più

Eccola lì, la cesoia di Vladimir Putin. Era solo questione di tempo, visto il lento, ma inesorabile, avvitamento dell’economia russa. Il prossimo bilancio statale russo parla di meno Pil, più tasse e ancora meno spesa pubblica, dunque anche militare.

Ebbene, il prossimo anno Mosca spenderà per il suo esercito 13 trilioni di rubli, circa 157 miliardi di dollari, mezzo trilione in meno rispetto all’anno in corso. Segno, inequivocabile, che di soldi in cassa ce ne sono meno, anche perché le vendite di idrocarburi latitano e non garantiscono più le coperture adeguate. La spesa totale per la difesa, inclusa la sicurezza poi, diminuirà in termini nominali del 2,3% e, in modo più significativo, in termini reali del 6,6%, passando da 17 trilioni di rubli a 16,7 trilioni di rubli (203,3 miliardi di dollari, il 7,2% del Pil).

Ma la principale modifica del nuovo bilancio, che coincide con il quarto anno di guerra, riguarda i drastici cambiamenti nelle prospettive di crescita del Pil. E qui sono dolori: +2,5% nel 2025 anziché 1% e fin qui va bene. Ma +1,3% nel 2026 anziché 2,4%. Ciò avvicina le stime del ministero dell’Economia alle attuali previsioni della Banca di Russia per una crescita dell’1-2% nel 2025 e dello 0,5-1,5% nel 2026. L’inversione di tendenza c’è e si vede. Tutta colpa del petrolio e del gas, fino a poco tempo fa due certezze per il Cremlino.

Ci sono due cifre chiave che danno la lettura della situazione: le entrate del bilancio federale nel 2026 ammonteranno a 40.283 miliardi di rubli, mentre le spese totalizzeranno 44.869 miliardi di rubli. Appare piuttosto evidente che i conti non tornino. Come si spiega. Secondo un report della Jamestown Foundation, “i profitti derivanti dalle esportazioni di risorse naturali, la principale fonte di reddito della Russia almeno dagli anni ’70, sono in forte calo. Questo calo non è dovuto esclusivamente alle sanzioni europee. La partnership strategica del Cremlino con la Repubblica Popolare Cinese non ha allentato la concorrenza sul mercato delle esportazioni. Ad esempio, il carbone cinese è più economico di quello russo e il bacino russo di Kuzbass/Kuznetsk, ricco di carbone, dovrebbe fissare prezzi inferiori ai costi per esportare verso la Cina”.

E ancora, “la Repubblica russa di Carelia inviava treni di legname al suo Paese vicino, la Finlandia, ma le sanzioni dell’Ue hanno bloccato questa pratica. La stessa Cina è interessata al legname russo, ma il costo del trasporto attraverso il gigantesco spazio eurasiatico rende i prezzi del legname careliano dorati”. Non resta che tassare. Ma chi? E dove? Il governo russo sta cercando di distribuire il carico con un mix di modesti prelievi dal suo Fondo di previdenza nazionale, tagli alla spesa, emissione di più obbligazioni e quest’anno aumento delle aliquote Iva di 200 punti base, che entrerà in vigore il 1° gennaio, e l’introduzione di imposte progressive sul reddito per la prima volta nei 25 anni di governo di Putin. Per Mosca è l’ora della verità.


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