Le nuove generazioni in Africa cercano i loro spazi: vogliono sicurezza, salute, prosperità e prospettive. Hanno necessità sempre più simili a quelle occidentali, ed è un contesto che progetti di cooperazione come il Piano Mattei si trovano ad analizzare
Le proteste che da settimane agitano il Marocco e il Madagascar rappresentano un nuovo capitolo dell’ondata di mobilitazione giovanile che, nel 2025, sta attraversando diversi Paesi del Sud globale — dall’Indonesia al Kenya, dal Nepal al Perù. Come osserva Nosmot Gbadamosi nel suo Africa Brief per Foreign Policy, si tratta di manifestazioni accomunate da una stessa radice: la frustrazione di una generazione che non si riconosce più nelle élite politiche tradizionali e che chiede rappresentanza, opportunità e giustizia sociale.
Il caso marocchino: dal disagio sanitario alla rabbia generazionale
In Marocco, le proteste — le più estese dai tempi della Primavera araba del 2011 — si sono ormai diffuse in oltre una dozzina di città. Tutto è iniziato con la morte di alcune donne a seguito di tagli cesarei in un ospedale di Agadir, episodio percepito come simbolo del fallimento del sistema sanitario. Da quella miccia è esplosa una rabbia più ampia, alimentata da disuguaglianze crescenti, mancanza di lavoro e percezione di corruzione.
Sotto la sigla “GenZ 212” (il prefisso telefonico del Marocco), i manifestanti chiedono al re Mohammed VI di sciogliere il governo, avviare indagini sulla corruzione e garantire maggiore accesso all’occupazione. I dati della Banca Mondiale parlano chiaro: negli ultimi dieci anni la popolazione in età lavorativa è cresciuta di oltre il 10%, ma l’occupazione solo dell’1,5%. La disoccupazione giovanile ha raggiunto il 40% nel 2024.
Mentre il governo tenta di calmare la situazione annunciando l’assunzione di 500 nuovi medici, il primo ministro Aziz Akhannouch — uno degli uomini più ricchi del Paese — non mostra intenzione di dimettersi. Intanto, la repressione è costata già tre morti e oltre mille arresti.
Madagascar: povertà estrema e instabilità politica
Sull’isola di Madagascar, la situazione non è meno tesa. Il presidente Andry Rajoelina, accusato di autoritarismo, ha sciolto il governo dopo settimane di proteste contro blackout, scarsità d’acqua e povertà diffusa. Almeno 22 persone sono state uccise dalle forze di sicurezza.
Due terzi della popolazione vive in condizioni di povertà estrema, e la crisi economica si è aggravata con l’aumento dei dazi statunitensi e la fine dell’African Growth and Opportunity Act, che garantiva accesso preferenziale al mercato americano. La perdita potenziale di 120.000 posti di lavoro pesa enormemente su un’economia già fragile, fortemente dipendente dall’export di vaniglia (l’80% della produzione mondiale).
La nomina del generale Ruphin Fortunat Zafisambo a nuovo primo ministro è stata interpretata come un tentativo di Rajoelina di consolidare il potere con l’appoggio dei militari. Il Madagascar Tribune ha osservato che l’uso della figura di un alto ufficiale “serve a proiettare fermezza e a corteggiare le forze armate”. I manifestanti hanno però respinto la convocazione di un “dialogo nazionale” e dato al presidente 48 ore per lasciare l’incarico, minacciando uno sciopero generale.
Una tensione continentale: messaggio per il Piano Mattei
Secondo la società di analisi Solace Global, la combinazione di disoccupazione, inflazione e disillusione verso la classe politica potrebbe favorire il contagio di movimenti simili in altri Paesi africani. Anche Pangea-Risk avverte che l’Uganda potrebbe essere il prossimo teatro di proteste, mentre l’81enne presidente Yoweri Museveni si prepara a candidarsi per un settimo mandato.
Queste turbolenze interne — dalla disoccupazione alla crisi di rappresentanza — non possono essere considerate episodi marginali. Per l’Italia, che ambisce a consolidare una cooperazione paritaria con l’Africa attraverso il Piano Mattei, è essenziale comprendere che il futuro del continente si gioca anche sul piano sociale e generazionale.
Le nuove richieste delle giovani classi africane — più istruzione, lavoro dignitoso, inclusione e giustizia — rappresentano la vera condizione di sostenibilità di qualsiasi partenariato. Ignorare questa trasformazione significherebbe costruire relazioni economiche senza fondamenta sociali: un errore che l’Europa, oggi più che mai, non può permettersi.