Nelle ore del Consiglio europeo chiamato a trovare una quasi impossibile quadra sugli asset russi, prende corpo la strategia comunitaria per ripristinare le forniture di minerali critici, senza i quali Difesa e auto rischiano una brusca frenata. L’Ue non può permettersi di rimanere a secco di materie strategiche e non ha la stessa forza contrattuale degli Usa, che nel frattempo stipulano accordi con Paesi terzi. La prossima settimana primo round con il ministro del Commercio Wentao
La macchina della diplomazia si è messa in moto. Come raccontato da Formiche.net pochi giorni fa, l’Europa ha aperto ufficialmente un canale con la Cina, all’indomani della stretta del governo cinese sulle esportazioni di minerali critici. Non c’era e non c’è alternativa, dal momento che senza le forniture del Dragone, l’industria del Vecchio continente rischia grosso. A cominciare dalla Difesa, la cui tecnologia oggi dipende ancora molto dai minerali estratti dai siti posseduti da Pechino, arrivando fino all’auto. Qui la situazione è se possibile ancora più critica, dal momento che senza una ripresa dei flussi (le nuove regole imposte dalla Cina alle esportazioni di minerali prevedono un’autorizzazione preventiva e in carta bollata del governo), costruttori quali Volkswagen, già messi sotto pressione dall’avanzata inarrestabile di Byd e dalla crisi dei chip all’indomani della nazionalizzazione di Nexperia da parte dell’Olanda, sono pronti a fermare la produzione.
Insomma, sulle terre rare l’Europa non ha un minuto da perdere. E così, nelle ore in cui a Bruxelles va in scena un Consiglio europeo sempre più simile all’ennesima salva di cannone, prende corpo una strategia europea dal vago retrogusto della sopravvivenza. Perché, come detto, senza gli approvvigionamenti, l’Ue rischia di passare molto più di un classico brutto quarto d’ora. Certo, se si avesse il potere contrattuale degli Stati Uniti, si potrebbe importare il modello americano. Anche Washington, fino a poche settimane fa, era pressoché dipendente dalle forniture cinesi. Poi però il presidente Donald Trump ha preso la situazione in mano, tessendo una fitta rete di accordi con Paesi terzi e non compromessi con le esportazioni cinesi di terre rare.
L’ultimo tassello è arrivato sotto forma di sigla col premier australiano Anthony Albanese di un pacchetto di misure in grado di alimentare progetti per lo sfruttamento delle terre rare del valore di 8,5 miliardi di euro. Per non parlare dell’estate scorsa, quando la Casa Bianca è intervenuta direttamente con l’acquisto di azioni per centinaia di milioni di dollari di grandi compagnie americane e canadesi che operano nel settore, con il Pentagono autorizzato a spendere 1 miliardo di dollari per costituire una riserva strategica di minerali indispensabili all’autonomia della difesa americana. Ma il coltello dalla parte del manico nella guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti, che ha conosciuto un nuovo tornante dopo la stretta all’export di terre rare e delle tecnologie connesse decisa da Pechino il 9 ottobre scorso, ce l’hanno piaccia o meno i cinesi, che estraggono il 70% di tutte le terre rare, processando l’87% di tutte quelle estratte nel mondo e raffinandone il 91%.
Ma ecco la mossa di Bruxelles. La prossima settimana emissari di Pechino, tra cui molto probabilmente il ministro del Commercio, Wang Wentao, voleranno in Europa per discutere proprio delle severe restrizioni all’esportazione di terre rare imposte da Pechino. E l’interlocutore sarà il commissario europeo al Commercio, Maroš Šefčovič, l’uomo che può avere in mano le chiavi per una possibile intesa. Le operazioni di sminamento sono comunque già avvenute. Parlando in conferenza stampa a Strasburgo, pochi giorni fa, Šefčovič ha dichiarato la sua controparte cinese, proprio Wentao, ha accettato il suo invito dopo una videochiamata definita costruttiva di due ore con Pechino. “Credo che, dopo la conversazione di questa mattina, non abbiamo alcun interesse a un’escalation”, ha chiarito il commissario. Palla alla diplomazia.