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Nei panni di John the plumber

Le statistiche e la storia sono contro la rielezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti, nel 2012. Le statistiche sostengono che è difficile per i politici in carica essere rieletti quando la recessione persiste e la sfiducia dell’opinione pubblica cresce. L’impatto della recessione sul mercato elettorale è quasi automatico: è successo in Gran Bretagna e in altri Paesi europei, dove il partito al governo è stato sconfitto, e succederà probabilmente anche in America. Il 2012 sarà un mondo senza Berlusconi, Zapatero, Sarkozy, Merkel e Obama? Quanto alla storia, ha la memoria lunga, e ci ricorda che dal 1936 in poi, nessun presidente americano è stato rieletto con un tasso di disoccupazione superiore all’8%. Ed è difficile che, tra un anno, il tasso di disoccupazione in America sia meglio. Quindi, giochi fatti? Mitt Romney for president?
 
Invece di avventurarci in ardite previsioni, proviamo invece a mettere le prossime elezioni presidenziali – ma il corpo elettorale americano sarà chiamato a votare anche per l’intera Camera, un terzo dei Senatori e l’elezione dei governatori di 11 Stati – in contesto. Ci sono un paio di possibili interpretazioni del momento storico che la politica americana sta attraversando. A seconda di quale di queste due interpretazioni scegliamo, possiamo trarne una previsione diversa. Sinteticamente, la prima sostiene che siamo all’inizio di una fase nuova, iniziata nel 2008, più favorevole alle istanze moderato-liberali. Questa interpretazione – abbastanza popolare anche al di fuori dell’ambiente degli addetti ai lavori (l’autore della teoria è uno storico, Arthur Schlesinger Jr.) – presuppone che la politica americana funzioni a cicli trentennali. Così, abbiamo il ciclo democratico, che va da F.D. Roosevelt a Lyndon Johnson, e poi quello repubblicano, da Nixon a G.W. Bush. Sempre secondo questa interpretazione, oggi saremmo all’inizio di una fase di egemonia democratica. Ovviamente, questo non significa automaticamente che Obama sia sicuro vincente nel 2012; significa soltanto che il pendolo politico – e quindi anche elettorale – propende dalla parte di Obama e dei democratici. Significa, per esempio, che i democratici potrebbero perdere la Casa Bianca ma riconquistare il pieno controllo del Congresso. Detto questo, è pur sempre una prospettiva che mette i democratici di buon umore.
 
La seconda interpretazione, meno nota, sostiene invece che il ciclo conservatore è iniziato soltanto negli anni Novanta. Conseguentemente, non ci siamo ancora usciti. Questa prospettiva, che è stata compiutamente elaborata soltanto di recente, a partire dalla pubblicazione di un libro, The wrecking crew, what´s the matter with Kansas?, afferma che la svolta conservatrice si è concretamente materializzata in America soltanto negli anni Novanta perché è soltanto allora – almeno secondo l’autore, Thomas Frank – che l’esprit del conservatorismo moderno è stato metabolizzato dall’americano medio, si è diffuso a livello di assemblee legislative statali, ha contagiato le sedi periferiche della Corte suprema, ha corroso i pulpiti e influenzato le gerarchie religiose, è entrata nell’immaginario popolare e ha iniziato a funzionare come invisibile creatore di senso.
 
Secondo questa interpretazione, il nuovo ciclo non inizia quando una certa classe politica va al potere, ma piuttosto quando la reazione ad una certa politica diventa parte del senso comune. Essa implicitamente riconosce un ruolo di leadership culturale a certe aree del Paese, per esempio il New England e la California, o le grandi città cosmopolite, come Chicago, che esprimono tendenze che idealmente poi dovrebbero diventare patrimonio della maggioranza del Paese. Ma sostiene che il cuore della politica americana è rappresentato non dalla diffusione delle idee delle élites ma piuttosto dall’opposizione a questa diffusione. Insomma, questa prospettiva mette al centro della dinamica politica il rapporto tra cittadino medio americano ed élites culturali e intellettuali del Paese. In particolare, l’opposizione della parte più tradizionale della società americana ai tentativi delle élites culturali di imporre l’omogeneità culturale sull’intera nazione.
 
Così, abbiamo una fila di candidati alla presidenza che, indipendentemente dal loro patrimonio, si presentano come l’espressione più autentica dell’uomo della strada. Il caso di Bush figlio è esemplare a questo proposito. Ma anche Al Gore, che sposa il populismo nell’ultima parte della sua campagna elettorale, e ovviamente Bill Clinton, e Bush padre. Tutti a candidarsi contro l’establishment, tutti straconvinti che le campagne elettorali si vincono al centro. Non al centro dello spettro politico, ma piuttosto nel centro geografico del Paese: e cioè il Midwest, cioè in Ohio, il microcosmo dell’America. È lì che si diventa presidenti. Le implicazioni di questa seconda interpretazione sono ovviamente rilevanti sulla previsione dell’esito delle elezioni dell’anno prossimo. Per esempio, suggeriscono che esiste una importante riserva elettorale alla destra di Mitt Romney.
 
La conclusione più importante che possiamo trarre da questa seconda prospettiva, comunque, è un’altra: il populismo può giocare un ruolo importante nelle elezioni, e influenzarne l’esito almeno quanto il tasso di disoccupazione. Obama e Romney non sono i candidati populisti più credibili, ma non è detto che non si possano attrezzare alla bisogna. Certamente sarà determinante, per aumentare le chances di successo, la loro abilità a impersonare il cittadino medio, l’americano di mezza età che vive nel Midwest, ha il mutuo sulla casa, un paio di figli a scuola e uno disoccupato. Ricordate Samuel Joseph Wurzelbacher, cioè “John the plumber”, l’americano medio portato in giro da John McCain nel 2008 come un trofeo? Ecco, il candidato che si identifica meglio con John the plumber, probabilmente vince.


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