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Dopo il cessate il fuoco, qual è il punto della situazione a Gaza? La versione di Mayer

Dopo due settimane il cessate il fuoco a Gaza tiene, ma il futuro resta incerto. La Turchia di Erdogan gioca un ruolo chiave ma ambiguo, sostenendo Hamas e cercando influenza nella Striscia. Egitto, Israele e Arabia Saudita vogliono contenerla. Gli Usa guidano la mediazione, mentre cresce l’attesa per il nuovo Centro di Coordinamento su Gaza

Dopo due settimane il cessate il fuoco a Gaza bene o male regge. A questo punto è necessario fare il “punto di situazione” per analizzare con precisione i risultati raggiunti, ma sopratutto i difficili e numerosi ostacoli ancora da superare.

Innanzitutto è utile approfondire i profili politici della vasta coalizione di Paesi che hanno aderito al piano Trump. La stampa ha parlato genericamente di stati arabi e musulmani, ma sarebbe un errore sottovalutare le profonde diversità che li contraddistinguono. Prendiamo – ad esempio – la Turchia. Tutti i leader del Golfo sono disposti a riconoscere al presidente Erdogan un ruolo molto importante nell’aver convinto Hamas ad accettare il cessate il fuoco. Ma è altrettanto vero che nell’interlocuzione con i vertici turchi Hamas ha confermato la sua indisponibiltà a procedere ad un disarmo completo. Si è parlato di una distinzione tra armi leggere e armi pesanti e/o tra armi difensive e offensive. Il timore è che la Turchia (e forse anche il Qatar) puntino a mantenere una qualche presenza permanente di Hamas a Gaza.

In effetti negli ultimi anni la Turchia (e non solo l’Iran) ha ospitato un buon numero di militanti di Hamas nonché curato centinaia di feriti delle Brigate Al Qassam. C’è poi da mettere in conto che una certa diffidenza del mondo arabo deriva dal fatto che la Turchia pratica costantemente la politica dei due forni. Da un lato è la seconda forza della Nato dopo gli Stati Uniti. Dall’altro, è una importante sponda della Fratellanza Musulmana di cui Hamas è la costola Palestinese. Proprio oggi nel corso della sua missione in Kuwait, Qatar e Oman Erdogan ha alzato il tono verso Israele rafforzare la sua posizione negoziale.

L’esito finale dipenderà ancora una volta dalla Casa Bianca, ma allo stato degli atti per ragioni diverse Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Israele hanno tutto l’interesse a contenere le ambizioni di Erdogan. L’Egitto di Al Sisi perché teme le azioni destabilizzanti dei Fratelli Musulmani all’interno del Paese, Israele perché la Turchia rappresenta tuttora un supporto per Hamas, l’Arabia Saudita perché si oppone alle mire di Ankara sulle ingenti risorse energetiche sottomarine nelle acque prospicenti a Gaza e nelle zone circostanti del Mediterraneo.

È importante raccontare, infine, che il ministro degli Esteri degli Emirati ha dichiarato che – a differenza del Qatar – il suo Paese si limiterà all’invio di aiuti umanitari e niente altro finché non saranno intraprese adeguate iniziative per escludere definitivamente Hamas da ogni presenza militare e politica dalla Striscia. Mentre gli Stati Uniti hanno ampi margini di pressione su Israele ed Egitto le relazioni con gli altri Paesi arabi si presentano più complesse.

A questo proposito un buon indicatore sarà la composizione finale del Centro di Coordinamento Civile-Militare su Gaza istituito dagli Usa nel sud di Israele. Ad oggi hanno aderito la Germania, la Danimarca, la Giordania e il Canada. Le successive adesioni sono previste tra due settimane. Per inciso a mio avviso è fondamentale che l’Italia aderisca a questo nuovo organismo di sorveglianza e monitoraggio sull’attuazione concreta del piano di pace, dell’invio degli aiuti umanitari e sulla ricostruzione.

Su questo ultimo aspetto è interessante osservare che le aziende cinesi si sono già assicurate direttamente o indirettamente i primi appalti per la ricostruzione di Unops, l’apposita agenzia delle Nazioni Unite.


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