Veti e blacklist non sono bastati a sbarrare la strada a tutte quelle aziende del Dragone potenzialmente pericolose per l’economia e la sicurezza nazionale. Ora la nuova frontiera cinese sono imprese in doppio petto e battenti bandiera a stelle e strisce ma in realtà controllate da Pechino. Report della Information tecnology&innovation foundation
La contraerea è stata schierata da tempo, ben posizionata e pronta a colpire ospiti indesiderati. Per esempio aziende cinesi dagli intenti poco amichevoli verso gli Stati Uniti. Eppure, non sempre il gioco riesce. Donald Trump, non lo si piò negare, ha fatto della difesa dell’economia americana dalle minacce cinesi la sua bandiera. Pur tuttavia, non rinunciando a portare a casa accordi fruttuosi sul versante commerciale e geopolitico. L’ultima tregua sulle terre rare è lì a dimostrarlo. La Cina, però, nonostante i veti e le varie blacklist a misura di Wall Street contro gli unicorni cinesi redatte dalla Casa Bianca, non ha perso il vizietto. E ancora ogni tanto ci prova a infilarsi tra le pieghe della finanza e dell’industria americana, come mette nero su bianco un report della Information tecnology&innovation foundation (Itif), secondo l’Università della Pennsylvania uno dei più autorevoli centri studi statunitensi.
Tutto parte da un sottile gioco di specchi. “La Cina”, si legge nel documento, “impone alle sue aziende di “minimizzare l’identità del Paese d’origine quando operano all’estero. In alcuni casi, ciò ha portato a imitazioni del marchio e a occultamenti della proprietà, che rendono poco chiaro il confine tra adattamento e inganno. Esistono datori di lavoro e contribuenti con sede negli Stati Uniti che tuttavia nascondono sia i loro legami con le società madri cinesi sia i loro obiettivi strategici. In alcuni casi, questi tipi di legami occulti hanno fornito alle aziende cinesi punti d’appoggio consolidati in settori strategici degli Stati Uniti”. Insomma, vere e proprie teste di ponte.
Ora, “queste forme di occultamento economico sono scarsamente sottoposte al controllo normativo statunitense, poiché mascherare la proprietà o l’origine nazionale non è illegale e le norme statunitensi in materia di investimenti restano ancora molto aperte. Quando tale offuscamento si interseca con le tecnologie, la proprietà del governo cinese crea i presupposti per una combinazione particolarmente rischiosa: ovvero un’azienda con sede negli Stati Uniti ma riconducibile alla Cina che può tranquillamente promuovere gli obiettivi strategici di Pechino. Gli Usa dovrebbero in tal senso rafforzare lo screening degli investimenti esteri, vietare i sussidi alle aziende finanziate dalla Cina, e centralizzare la due diligence sulle aziende sospette. Tutto per difendere la nazione”, scrive l’Itif .
D’altronde, “questo occultamento è diventato nefasto: alcune aziende cinesi che operano negli Stati Uniti mascherano la loro origine nazionale, presentandosi come imprese al 100% Usa e con marchio patriottico. E questo nonostante Pechino mantenga il controllo finale sulla loro proprietà e sulla loro direzione strategica. Di contro, le aziende statunitensi che operano in Cina si trovano ad affrontare limiti all’accesso al mercato, difficoltà nella partecipazione ad appalti pubblici, vincoli al reclutamento di talenti e trasferimenti tecnologici obbligatori. La Cina non permetterebbe mai a un fornitore militare statunitense di acquisire un’azienda cinese strategicamente critica, di rinominarla per farla apparire cinese e di ricevere ingenti sussidi dal governo cinese”. Insomma, qualcosa non quadra.
















