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I dem trionfano, i Maga riflettono. Le midterm? È ancora presto. Parla Pregliasco

Le elezioni americane segnano un successo diffuso per i Democratici, che conquistano con ampio margine Virginia, New Jersey e la Proposition 50 in California. La vittoria di Mamdani a New York è simbolica, ma il vero segnale arriva dal trend complessivo.
Trump, invece, esce indebolito, ai minimi di popolarità dall’inizio del suo secondo mandato. Per Lorenzo Pregliasco, fondatore di YouTrend però, si tratta di un segnale, non di una garanzia: l’America si muove, ma non è detto che si sposti

La Grande Mela è democratica. Non è solo la vittoria di Zohran Mamdani a New York a segnare la tornata elettorale americana: è l’insieme dei risultati – dalla Virginia al New Jersey, fino alla Proposition 50 in California – a raccontare una fase politica in movimento. I Democratici vincono, e vincono bene, ma Lorenzo Pregliasco, fondatore di YouTrend, invita alla prudenza: “Non è detto che questi risultati si traducano automaticamente in un successo alle prossime midterm o alle presidenziali. Ma c’è un trend che vale la pena osservare: l’America sta mandando dei segnali”. Con lui, su Formiche.net, abbiamo analizzato il voto, i messaggi che escono dalle urne e le crepe che si aprono nel mondo Maga.

Partiamo dal dato più visibile: la vittoria di Mamdani a New York. È davvero questo l’elemento più rilevante di questa tornata elettorale?

In realtà no, o meglio: è una notizia, ma non la notizia. La vittoria di Mamdani è simbolicamente importante, ma non basta a spiegare l’ampiezza del risultato complessivo. Queste elezioni, pur essendo minori rispetto alle midterm del 2026, mostrano un segnale politico chiaro: i Democratici vincono in modo convincente in diversi contesti, anche in stati dove partivano da condizioni meno favorevoli.

In Virginia, Abigail Spanberger ha conquistato la carica di governatrice con un margine molto ampio. Che significato ha questa vittoria?

È una vittoria doppiamente simbolica. Prima di tutto, perché si trattava di uno stato con un governatore repubblicano uscente, Glenn Youngkin, che rappresentava l’anima moderata del GOP. Poi, perché Spanberger – ex agente Cia, pragmatica, con un profilo trasversale – incarna quel tipo di candidato che può parlare a un elettorato più ampio. La Virginia è ormai tendenzialmente democratica, ma vincere con questo margine, dopo la parentesi repubblicana, è un segnale di forza.

Anche in New Jersey i Democratici hanno consolidato la loro posizione. È un trend locale o qualcosa di più ampio?

È un trend più generale. Il New Jersey è sì uno stato tendenzialmente democratico, ma alle ultime presidenziali Kamala Harris aveva avuto un risultato meno brillante, con un Trump in forte rimonta. La vittoria ampia di Mikie Sherrill, con oltre 13 punti di vantaggio, mostra che il partito ha ritrovato coesione.

In California, invece, il voto sulla Proposition 50 sembra avere un peso strutturale sul futuro politico.

Assolutamente. Il ridisegno dei collegi elettorali a favore dei Democratici è una risposta diretta al gerrymandering repubblicano in Stati come Texas, Ohio o North Carolina. È una sorta di “ritorsione politica” attuata con determinazione dal governatore Gavin Newsom, possibile contendente Dem alle prossime presidenziali. Gli elettori californiani l’hanno approvata con quasi 30 punti di scarto. È un passaggio che può restituire ai Democratici fino a cinque seggi alla Camera, compensando parte del vantaggio repubblicano.

Dunque possiamo dire che i Democratici tornano in forma?

Diciamo che si muovono nella direzione giusta, ma senza certezze. Il bacino elettorale di queste elezioni non è quello che si presenta alle presidenziali o alle midterm: è un elettorato più attivo, più politicizzato. I repubblicani di Trump, invece, hanno un consenso forte tra gli elettori “disengaged”, quelli che non votano alle tornate minori ma tornano alle urne per le grandi sfide. Quindi sì, è un segnale positivo per i Democratici, ma non un pronostico garantito.

Quanto pesa, in tutto questo, la figura di Donald Trump?

Molto. Trump rimane un presidente polarizzante, ai minimi di popolarità dall’inizio del suo secondo mandato: oggi è poco sopra al 40%. L’opinione degli americani sull’economia e sull’inflazione è negativa, proprio sui temi che avevano consentito a Trump di vincere le presidenziali l’anno scorso. Questo non significa affatto che sia finito, ma che è in una fase di difficoltà. È una battuta d’arresto per lui e per il mondo MAGA, che comunque resta influente e organizzato.

Che tipo di riflessione può aprire, all’interno del Partito Repubblicano, un risultato come questo?

Potrebbe spingere i candidati repubblicani che nel 2026 correranno in collegi più contendibili a differenziarsi da Trump. Non in modo clamoroso, ma tattico: su alcuni temi potrebbero prendere le distanze per non essere trascinati verso la sconfitta. È un segnale che non cambia i rapporti di forza immediati, ma che può incidere sulla strategia repubblicana in vista delle prossime midterm.

In definitiva, che America esce da questa tornata elettorale?

Un’America divisa, ma meno prevedibile. Un Paese in cui i Democratici mostrano vitalità e i Repubblicani iniziano a interrogarsi. È un voto che non cambia tutto, ma che dice molto: gli Stati Uniti, oggi, sono in movimento.


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