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All’Italia servono confronto e strategie di crescita (e meno scioperi). La versione di Bonanni

Landini potrà pure chiamare l’ennesimo sciopero, ma chi davvero rappresenta lavoro e impresa deve sedersi al tavolo, con governo e opposizioni, non per chiedere ciò che nessuno potrà dare, ma per costruire insieme una strategia di crescita. Il commento di Raffaele Bonanni

La discussione sulla legge di Bilancio prosegue, ma il copione è sempre lo stesso: si parla di nuove spese, non di strategie. Si aggiungono oneri, senza selezionare quelli che potrebbero innescare un ciclo virtuoso di crescita, e si evitano i tagli alla spesa improduttiva che da decenni avvelena lo sviluppo del Paese. Anche sul fronte delle autonomie locali, il dibattito sulle province conferma la tendenza a un’ulteriore statalizzazione, che si somma all’ipertrofia delle Regioni. Si annunciano assunzioni pubbliche, ma non si ragiona su un vero orizzonte di cambiamento o su nuovi obiettivi strategici. Si chiedono aiuti per compensare crisi, come quella energetica, ma nessuno discute seriamente delle risorse nazionali da attivare, né tantomeno del programma nucleare.

Il risultato è un dibattito confuso, dominato dall’urgenza di spendere, senza un piano per generare entrate attraverso lo sviluppo e il risparmio su ciò che non produce valore. In questo contesto, Elly Schlein incontra imprese e sindacati per discutere la manovra. Giorgia Meloni farà lo stesso, poco dopo. È il vecchio rito della politica italiana: chi governa difende, chi si oppone reclama. Tutti chiedono, tutti promettono. Ma oggi il copione non basta più. L’Italia non ha bisogno di altri tavoli d’ascolto: ha bisogno di una direzione. Continua a vivere sopra le proprie possibilità, coltivando ambizioni da grande Paese con numeri da stagnazione.

Neppure nella maggioranza il tono è diverso. Si predica prudenza nei conti, ma riaffiora puntualmente la tentazione di spendere e di compiacere tutti. Eppure, sul lavoro, qualcosa di buono è stato fatto: meno tasse su premi e straordinari, alleggerimento per i redditi più bassi, correzioni alle aliquote. Quattro miliardi per restituire un po’ di fiato a chi produce. Giusto. Ma quei soldi non vengono da una crescita reale: arrivano dagli utili record delle banche, mentre il Pil ristagna e il Pnrr ha perso la sua spinta propulsiva.

Da due anni l’Italia galleggia sullo zero, con la recessione che incombe. Da troppo tempo si distribuisce denaro a debito, drogando la realtà e rimandando il conto. Le parti sociali dovrebbero smettere di chiedere “quanto mi dai oggi” e iniziare a pretendere una visione: come far crescere il reddito del Paese, non il suo debito. Serve un nuovo patto sociale fondato su responsabilità e sviluppo, come richiesto al governo da sindacalisti ed imprenditori più avveduti. Tagliare il superfluo per investire in ciò che genera valore: energia, scuola, infrastrutture, giustizia, innovazione, concorrenza. L’Italia arretra su tutti questi fronti mentre gli altri corrono. Tornare competitivi significa ridurre sprechi e duplicazioni, alleggerire lo Stato inefficiente, premiare il merito, non la rendita.

Per anni il consenso è stato comprato a debito, ingrassando burocrazie e apparati pubblici. Ora basta. Non possono convivere sviluppo e nimby, modernità e statalismo, libertà economica e assenza di concorrenza. Né si può invocare sovranità restando una provincia. La vera sovranità oggi passa da un’Europa federale: il resto è propaganda. Landini potrà pure chiamare l’ennesimo sciopero, ma chi davvero rappresenta lavoro e impresa deve sedersi al tavolo, con governo e opposizioni, non per chiedere ciò che nessuno potrà dare, ma per costruire insieme una strategia di crescita.


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