La lezione del mattone è servita a poco. Pechino non è stata in grado di capire, o forse non ha voluto, che la siderurgia nazionale produceva più di quello che il mercato riusciva ad assorbire. E alla fine è successo quello che è successo. Ecco cosa dice l’International institute for strategic studies
Se c’è un simbolo dei mali cinesi, quello è il mattone. Per innumerevoli ragioni, fin qui raccontate nel corso degli anni da questo giornale. Eppure, il modello industriale cinese ha fatto cilecca anche su un altro versante: quello dell’acciaio. Il canovaccio, però, è sempre quello: un mercato che non è stato in grado di comprendere e capire con il giusto anticipo i grandi cambiamenti che si andavano profilando. In parole più semplici, la siderurgia cinese ha continuato a produrre anche quando la domanda dava i primi segni di anemia (il collasso dell’immobiliare e la generale fermata dei cantieri ha provocato un drastico crollo della richiesta di acciaio), aprendo la strada alla saturazione del mercato. Tutto questo ha prodotto un eccesso di offerta, con conseguente crollo dei prezzi. E allora, dove vendere quello che in patria non si vendeva più? Perché o si piazzava l’acciaio cinese da qualche parte fuori dal Dragone o i colossi del Dragone sarebbero falliti.
Ed ecco che è entrato in gioco l’Occidente. Come a dire, il prezzo del fallimento del modello industriale cinese, per i motivi di cui sopra, lo paga alla fine l’Europa e la sua siderurgia. Aspetti su cui si è concentrata un’analisi dell’International institute for strategic studies (Iiss). “La Cina produce ancora più della metà dell’acciaio mondiale ed è responsabile di oltre un quarto delle emissioni globali di carbonio. Tuttavia, con il rallentamento dell’attività edilizia e infrastrutturale, la domanda interna sta diminuendo, portando a un persistente eccesso di offerta, a un’impennata delle esportazioni e a rinnovate tensioni commerciali con gli Stati Uniti e l’Unione europea”, è la premessa.
“Queste pressioni stanno mettendo a nudo i limiti di un modello basato sugli investimenti che ha plasmato i mercati globali per due decenni. Nel 2000, la Cina consumava circa 124 milioni di tonnellate di acciaio, una quantità pressoché equivalente a quella degli Stati Uniti, ma inferiore ai 168 milioni di tonnellate consumati nell’Ue. Nel 2020, la Cina utilizzava oltre un miliardo di tonnellate di acciaio all’anno, mentre il consumo di acciaio nell’Ue era sceso a 131 milioni di tonnellate. Ora, tra il 2010 e il 2020, quasi il 60% del consumo di acciaio in Cina è stato nei settori dell’edilizia e delle infrastrutture e la produzione interna di acciaio cinese è conseguentemente aumentata rapidamente per soddisfare questo consumo vorace, tanto che nel 2024 rappresentava il 55% della produzione globale. Tuttavia, questa produzione ha da tempo superato la domanda interna”, scrive l’Iss.
Il quale arriva a una prima conclusione. “Le esportazioni cinesi di acciaio sono aumentate nel 2024, riflettendo l’eccesso di offerta interna. I volumi delle esportazioni hanno raggiunto 110 milioni di tonnellate lo scorso anno, rispetto ai più tipici 75 milioni di tonnellate di esportazioni annuali. Tale aumento delle esportazioni lo scorso anno ha spinto una serie di misure protezionistiche da parte di una serie diversificata di Paesi, sia nei Paesi avanzati, sia in via di sviluppo. Ciò è particolarmente vero poiché a ottobre la Commissione europea ha annunciato che i dazi doganali dell’Ue sull’acciaio sarebbero raddoppiati al 50%”.
Insomma, un primo dato è che la Cina ha inguaiato l’Europa, inondando il mercato di acciaio a basso costo. Ma anche il Dragone ci ha rimesso le penne. “L’eccesso di offerta sul mercato potrebbe aumentare nei prossimi anni”, mette in chiaro l’Iiss. “Alla fine, la combinazione di una domanda più debole e di prezzi più bassi (che riflettono l’eccesso di offerta) dovrebbe costringere i produttori a ridurre la produzione, sebbene questo sarà probabilmente un processo lento, data la riluttanza dello Stato cinese a mettere a repentaglio l’occupazione”. Tradotto, le acciaierie cinesi, per sopravvivere, dovranno ridurre i loro volumi e con essi i loro margini. Il fallimento di un modello industriale sta tutto qui.
















