La tragedia di Lampedusa, e il nuovo naufragio nel Canale di Sicilia, dove si è da poco rovesciato un barcone con 250 persone a bordo, hanno riaperto il dibattito su quale debba essere l’approccio italiano al tema dell’immigrazione, una risorsa che però porta con sé sfide di natura economica e sociale. Per Germano Dottori, docente di Studi strategici alla Luiss e curatore del rapporto “Nomos e Kaos” di Nomisma, è essenziale conciliare politiche di accoglienza con un’opera di sostegno alle economie emergenti, pena l’esplosione di un problema demografico difficile da fronteggiare. E che potrebbe esporre l’Italia e l’Europa a rischi altissimi. Ecco quali.
Professore, cosa potrebbe accadere se l’Italia cambiasse approccio sui flussi migratori?
Probabilmente il nostro Paese dovrebbe uscire da Schengen. Perché gli accordi di Schengen postulano la libertà di circolazione tra i Paesi che li hanno sottoscritti e proprio per questo si esige il massimo rigore dagli Stati che hanno il controllo delle frontiere esterne dell’area. Da Lampedusa dipendono le periferie di Berlino e Parigi. L’Italia è entrata in ritardo in Schengen proprio perché era ritenuta vulnerabile da tutte le altre nazioni che ne facevano già parte. Questa storia è ben nota anche al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Fu proprio grazie al varo della legge che porta il suo nome, insieme a quello di Livia Turco, poi irrigidita successivamente dalla Bossi-Fini, che l’Italia venne finalmente ammessa in Schengen nel 1998. La Legge Martelli non conteneva sufficienti garanzie.
Cosa intende dire?
Come sul piano della politica fiscale, anche sotto il profilo dei controlli dei flussi migratori l’Europa è per il rigore. Il manifesto elettorale del Labour inglese a sostegno della rielezione di Gordon Brown affermava esplicitamente, pochi anni fa, che “non esiste un diritto di immigrazione nel Regno Unito”. E nei giorni scorsi abbiamo visto una testata notoriamente progressista come El Pais prendersela addirittura con Papa Francesco, rimproverato di denunciare la nostra indifferenza mentre il Vaticano non ospita alcun immigrato clandestino nelle sue strutture! È un addebito ingeneroso, naturalmente, e che io personalmente non condivido, ma che la dice lunga sullo stato d’animo prevalente in Spagna. Una politica di accoglienza indiscriminata da parte dell’Italia provocherebbe senza dubbio la nostra espulsione dagli accordi di Schengen. Non sono fantasie, è già successo, seppur temporaneamente: si pensi a quanto accadde nel 2011, quando Lampedusa fu invasa dai giovani che scappavano dalla Tunisia in rivolta. I francesi chiusero la frontiera di Ventimiglia.
Quando è lecito chiudere le frontiere?
C’è un dibattito in questo senso. Non a caso, vedo che si insiste adesso soprattutto sul diritto di asilo e si descrivono i migranti in arrivo sulle nostre coste come “rifugiati”, con una sottile manipolazione. È chiaramente un escamotage. Nei confronti dei rifugiati, in effetti, si applica un regime del tutto differente. E giustamente, perché sono coloro che scappano dalle persecuzioni e dalle guerre. Su questo, sono d’accordo tutti. Ma non è facile riconoscerli rispetto ai migranti economici. Non tutti coloro che arrivano da noi ricadono infatti in quella fattispecie. Ed anche sotto questo profilo occorre stare attenti: in base alla Convenzione di Dublino, infatti, il Paese di prima accoglienza è di fatto giudice della posizione del presunto rifugiato. Una volta concesso l’asilo, questi ha libertà di muoversi in tutta l’Europa. Anche in questo caso, un lassismo da parte nostra verrebbe quindi certamente punito.
Come giudica l’attuale politica italiana sull’immigrazione in un’ottica di competitività del Paese e di attrazione di intelligenze e non solo di braccia?
Irrilevante. L’Italia di per sé è incapace di generare i posti ad alto valore aggiunto per i propri laureati, che infatti scappano all’estero, dove fanno spesso meraviglie e vengono valorizzati. Possiamo anche attrarre persone qualificate, ma la realtà è questa: ci sono laureati tra le giovani badanti che si occupano dei nostri anziani, tra le commesse dei negozi delle città turistiche e persino tra i bengalesi che vendono i fiori la notte nei pub. Le persone più ambiziose dopo qualche anno si accorgono che non ci sono gli spazi per migliorare la propria condizione e se ne vanno. Non siamo l’America. D’altra parte, ci sono importanti comunità che stanno iniziando a far ritorno a casa loro: i polacchi, ad esempio, non di rado seguiti anche da qualche nostro concittadino. Ed i marocchini: anche in questo caso, c’è una sorpresa. Il Marocco è infatti diventato recentemente una meta degli ingegneri spagnoli, rimasti disoccupati dopo lo scoppio della crisi dell’edilizia nel loro Paese. E poco importa che dall’altra parte di Gibilterra siano pagati meno dei loro colleghi marocchini. Ci vanno lo stesso, perchè quando si deve sopravvivere neanche in Europa si può più andare per il sottile.
Cosa possiamo fare allora?
Dobbiamo, credo, esser realisti. La marea migratoria ha la sua radice in squilibri demografici che dureranno ancora a lungo. L’Africa è giovane ed abitata da centinaia di milioni di persone che vogliono migliorare legittimamente le proprie condizioni di vita. Mentre noi siamo in declino demografico e pieni di anziani, quindi obiettivamente vulnerabili ed anche egoisti. Ma qualche alternativa l’abbiamo: è possibile, ad esempio, sostenere la crescita che sta attecchendo in diversi Stati africani. In qualche caso, manchiamo senza dubbio di generosità. Nel senso che ci rifiutiamo di aprire i nostri mercati alle esportazioni che vengono da Sud. Intervenire su questo approccio, rovesciandolo, permetterebbe di alimentare uno sviluppo più rapido nei Paesi sorgente dei flussi migratori, attenuando le pressioni che gravano su di noi. Però, gli agricoltori, i cui interessi saranno peraltro presto minacciati anche dall’accordo transatlantico di libero scambio, vi si oppongono. Certo: non sarebbe una soluzione definitiva neanche quella. Ma tempo ed intensità dei flussi contano.
Quali sono i rischi di politiche poco chiare?
Integrare un milione di immigrati nell’Unione Europea ogni anno è una cosa, inserirne cinque o dieci un’altra. Non tutti gli immigrati, poi, sono uguali, anche se è brutto dirlo. Le distanze culturali hanno infatti un peso rilevante. È più facile assorbire persone secolarizzate o di estrazione cristiana, come gli europei dell’Est o i Filippini, che non i flussi alimentati dalle popolazioni musulmane, almeno fintantoché queste rimarranno ancorate alle proprie tradizioni, che per noi sono una sfida, sia sotto il profilo dell’accettazione del nostro diritto civile che quello del rispetto delle loro celebrazioni, a partire dal Ramadan. Abbiamo quindi bisogno di rallentare il processo, per gestirlo meglio ed evitare le reazioni di rigetto. Su questo non si possono avere dubbi.