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Tra petrolio e oro. Le ultime cartucce di Mosca per non fallire

Nelle ore in cui Usa ed Europa lavorano a un piano di pace il più equo possibile e che abbracci anche le istanze dell’Ucraina, i numeri raccontano la grave e profonda crisi dell’economia russa, che potrebbe anche agevolare i negoziati. Oltre un terzo delle entrate da idrocarburi sono ormai evaporate, mentre Cina e India fanno asse nel ridurre le forniture dall’ex Urss. La quale comincia a piazzare sul mercato il proprio oro

Forse, alla fine, la pace conviene anche alla Russia. Nelle ore in cui Europa e Stati Uniti tentano di gettare le basi per il cessate il fuoco tra Kyiv e Mosca, l’ex Urss si scopre ancora una volta debole e vulnerabile. Certo, la propaganda finora ha funzionato, allontanando, almeno in patria, lo spettro del fallimento dal Cremlino. Ma, come sempre, ci sono i numeri a dare un’altra versione dei fatti.

Per esempio quelli che raccontano come alla fine di novembre la Russia potrebbe aver perso il 35% delle proprie entrate derivanti da gas e petrolio. Questo significa che in un anno, vala e dire tra novembre 2025 e lo stesso mese del 2024, Mosca ha lasciato sul terreno oltre un terzo del proprio bilancio energetico, in termini di esportazioni. Su per giù, circa 520 miliardi di rubli bruciati in dodici mesi.

Se invece si confrontano i primi undici mesi dell’anno con quelli dello scorso, ecco che il crollo delle entrate si attesta al 22%. Un dato di poco inferiore a quello di novembre, ma pur sempre sostanziale. Come si spiega tutto questo? Tutto molto semplice: chi finora ha comprato idrocarburi dalla Russia, non lo sta facendo più. Insomma, qualcuno ha deciso di staccare il tubo. Ed ecco altri numeri. Si prenda la Cina, a parole fedele alleata di Mosca. Da quando gli Stati hanno attaccato frontalmente le due principali compagnie petrolifere russe, Lukoil e Rosneft, il Dragone ha cominciato a ridurre gli acquisti fino a mezzo milione di barili al giorno.

E a nulla, almeno per il momento, sembrano valere i tentativi del Cremlino, a mezzo Gazprom, di accelerare i lavori per la messa a terra del Power of Siberia 2, il raddoppio del gasdotto sino-russo che dovrebbe pompare nel Dragone oltre 50 miliardi di metri cubi di gas. Ma c’è di più. Sembra proprio essere in atto una saldatura tra Cina e India, nel nome dello sganciamento dalla forniture russe. La prova? Il più grande conglomerato industriale indiano, Reliance Industries, di proprietà del miliardario Mukesh Ambani, ha smesso di importare greggio russo per la sua unità di raffinazione destinata esclusivamente all’esportazione a Jamnagar, nello stato occidentale del Gujarat.

L’iniziativa mira, come detto, a conformarsi al divieto imposto dall’Occidente (e anche dall’Ue) sulle importazioni di carburante derivato dal petrolio russo attraverso paesi terzi, che entrerà in vigore il prossimo anno. È inoltre in linea con le sanzioni statunitensi contro i principali produttori di petrolio russi Rosneft e Lukoil, che entreranno in vigore venerdì. “Questa transizione è stata completata in anticipo rispetto al previsto per garantire la piena conformità alle restrizioni sulle importazioni di prodotti che entreranno in vigore il 21 gennaio 2026”, ha affermato Reliance in una nota. Morale? Russia scaricata.

E allora, forse, non resta che una carta a Mosca. Vendere l’oro, lingotto dopo lingotto. In questi giorni la Banca centrale russa ha iniziato per la prima volta dall’inizio della guerra contro l’Ucraina a vendere oro fisico dalle sue riserve, per finanziare il bilancio dello Stato. Ovvero ad arrivare laddove il petrolio non arriva più. Certo, le riserve auree della Russia superano le 2.300 tonnellate, rappresentando la quinta riserva più grande al mondo. Ma è comunque un segnale che forse, a Mosca, di soldi non ce ne sono più. Basterà a spingere il Cremlino verso un piano di pace più equo?


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