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L’Ateneo che chiude le porte allo Stato. Il paradosso dell’Alma Mater letto da Caruso

L’Università di Bologna, l’Alma mater per eccellenza, una delle istituzioni accademiche più antiche e prestigiose al mondo, si trova al centro di una vicenda che rappresenta molto più di una semplice questione amministrativa. Il rifiuto opposto dal dipartimento di Filosofia alla richiesta del capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale Carmine Masiello, di avviare un corso di laurea per una quindicina di giovani ufficiali solleva interrogativi profondi sul ruolo delle istituzioni pubbliche e non solo. La riflessione del generale Ivan Caruso

Siamo di fronte a un paradosso che sfida la logica istituzionale: un’università statale, finanziata con oltre 540 milioni di euro di fondi pubblici, nega l’accesso a rappresentanti di un’altra istituzione dello Stato. L’Esercito italiano, previsto e tutelato dalla Costituzione, viene sostanzialmente escluso dall’accesso alla formazione universitaria con una motivazione che suona quanto meno pretestuosa: il timore di “militarizzare” la facoltà. Come se la presenza di quindici ufficiali in un ateneo che conta decine di migliaia di studenti potesse trasformare l’Alma mater in una caserma.

La questione diventa ancora più grottesca quando si considera la reazione del rettore Giovanni Molari, che si è elegantemente defilato dietro l’autonomia decisionale dei dipartimenti. Viene da chiedersi: a cosa serve un Magnifico rettore se non ha voce in capitolo sulle scelte strategiche del proprio ateneo? E a cosa serve un ministro dell’Università e della Ricerca se ogni singolo dipartimento può decidere autonomamente chi ammettere e chi escludere, in barba alla missione istituzionale dell’università pubblica?

La cultura come strumento di discriminazione

Il caso solleva un precedente pericoloso. Se oggi si può discriminare l’Esercito in nome di presunti timori ideologici, quale sarà il prossimo criterio di esclusione? Il colore della pelle? La religione? L’appartenenza politica? Stiamo assistendo a una deriva settaria della cultura, dove il sapere non è più un bene universale ma diventa proprietà esclusiva di chi si ritiene depositario della “giusta” visione del mondo.

La filosofia, per sua natura disciplina del dubbio, del confronto e del pensiero critico, viene trasformata in strumento di chiusura. È l’antitesi stessa di ciò che dovrebbe rappresentare. Come può un dipartimento che si occupa di pensiero filosofico negare l’accesso a chi vuole aprire la propria mente, sfuggire agli stereotipi, sviluppare un “pensiero laterale”? La richiesta del generale Masiello nasceva proprio da questa esigenza: formare ufficiali capaci di comprendere la complessità del mondo contemporaneo attraverso gli strumenti della riflessione filosofica.

L’ipocrisia del doppio standard

L’Italia è un Paese dalle contraddizioni stranianti. Invochiamo l’Esercito quando serve: per la Terra dei fuochi, per le emergenze neve, per contrastare la criminalità organizzata, per le missioni di pace all’estero. Li abbiamo chiamati durante la pandemia Covid-19, quando allestivano ospedali da campo, quando distribuivano vaccini e presidiavano i centri di somministrazione. Ci strappiamo le vesti quando i talebani riportano l’Afghanistan al Medioevo, dimenticando che quei progressi sociali erano stati ottenuti anche grazie all’impegno dei nostri militari. Chiamiamo i soldati durante alluvioni e terremoti, li vogliamo per strada quando ci sentiamo insicuri, ma poi li trattiamo come cittadini di serie B quando chiedono accesso alla cultura.

Questo atteggiamento rivela una visione strumentale delle Forze armate: utili quando servono, da tenere a distanza quando non fanno comodo. Una concezione che tradisce non solo i militari, ma l’intera collettività, perché nega a chi ha il compito di difendere lo Stato la possibilità di arricchire la propria preparazione culturale.

Il vuoto della responsabilità

Forse l’aspetto più inquietante di questa vicenda è l’assenza totale di assunzione di responsabilità. Il rettore si nasconde dietro l’autonomia dei dipartimenti, il direttore del dipartimento preferisce non commentare, il ministero dell’Università sembra impotente. Nel frattempo, emerge il sospetto che le decisioni non siano prese da chi dovrebbe prenderle per ruolo e competenza, ma siano influenzate da collettivi studenteschi che occupano le università e impongono la propria agenda ideologica.

Siamo di fronte a istituzioni pubbliche ostaggio di minoranze organizzate, incapaci di far valere la propria autonomia decisionale e la propria missione istituzionale. Il risultato è un sistema paralizzato, dove nessuno decide veramente e tutti si nascondono dietro procedure e cavilli burocratici.

La questione dei finanziamenti pubblici

Qui emerge una contraddizione insanabile: può un’università che riceve centinaia di milioni di euro di finanziamenti pubblici permettersi di discriminare altre istituzioni dello Stato? I cittadini italiani, attraverso le loro tasse, finanziano l’Alma mater perché svolga una funzione pubblica: diffondere la cultura, preparare le nuove generazioni, contribuire al progresso della società. Non certo per trasformarsi in un club esclusivo dove si decide chi merita e chi non merita di accedere al sapere sulla base di pregiudizi ideologici.

Il ministro Bernini dovrebbe seriamente valutare se un’università che tradisce la propria missione fondamentale meriti ancora di ricevere l’intero sostegno finanziario dello Stato. Non si tratta di punire l’ateneo, ma di far valere il principio che chi riceve risorse pubbliche deve servire l’interesse pubblico, non gli interessi di parte.

Il tradimento dei valori proclamati

Sul sito dell’Università di Bologna si legge: “Pensiero libero, sapere condiviso, Università come spazio di conoscenza, confronto e cambiamento”. Parole bellissime, che suonano tragicamente vuote di fronte a questa vicenda. Dov’è il pensiero libero quando si nega l’accesso non per le idee che si professano, ma semplicemente per l’uniforme che si indossano? Dov’è il sapere condiviso quando lo si riserva solo ad alcuni? Dov’è il confronto quando si rifiuta il dialogo con istituzioni legittime dello Stato?

La verità è che siamo di fronte all’opposto di quanto proclamato: un pensiero conformista, un sapere riservato, un’università come spazio di esclusione e immobilismo. Una certa intellighenzia accademica si è convinta di essere depositaria esclusiva del sapere, mescolando supponenza e arroganza in una miscela tossica che nega i valori democratici che dice di difendere.

Conclusione: una democrazia in pericolo

Questa vicenda, apparentemente marginale, rivela in realtà una crisi profonda del sistema democratico italiano. Quando le istituzioni pubbliche non dialogano tra loro, quando si negano reciprocamente legittimità, quando prevalgono logiche settarie e ideologiche sulla missione istituzionale, la democrazia stessa è in pericolo.

L’Università dovrebbe essere il luogo dove si formano cittadini critici, consapevoli, capaci di comprendere la complessità del reale. Invece rischia di diventare uno spazio di indottrinamento, dove si ammettono solo coloro che aderiscono a una determinata visione del mondo. E questo non è accettabile, soprattutto quando avviene con i soldi di tutti gli italiani.

La filosofia insegna che la verità nasce dal confronto, dal dubbio, dalla capacità di mettere in discussione anche le proprie certezze. Forse è proprio un corso di filosofia quello di cui avrebbe bisogno qualcuno all’Università di Bologna.


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