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Non c’è riconciliazione duratura senza un traguardo comune. Le parole di Papa Leone al Libano

Un discorso che riguarda in prima persona i cristiani e le Chiese di questo Paese, che sono chiamate ad accompagnare questa riconciliazione tra politica e popolazione, tra chi governa con troppi privilegi e chi è governato. I timori di ridimensionamento che i cristiani non nascondono e che sarebbe inutile far finta che non ci siano e che non derivino dall’emigrazione per la durezza della crisi soprattutto economica, nascono anche dallo sguardo che si assume. La riflessione di Riccardo Cristiano

Il Presidente libanese, Joseph Aoun, ha detto alcune cose importanti, che spiegano perché il Libano, nonostante tante evidenti debolezze, lacune e incapacità, meriti l’attenzione che il Vaticano gli ha sempre dato, non solo perché i cristiani sono qui più numerosi che altrove. Ecco allora alcune sue affermazioni di rilievo: “Il Libano è stato concepito nella libertà e per la libertà, non per una religione, una setta o un gruppo. È la terra della libertà e della dignità per ogni essere umano.

È una nazione unica nel suo genere, dove cristiani e musulmani hanno credenze diverse ma pari diritti, in virtù di una Costituzione fondata sull’uguaglianza tra cristiani e musulmani e sull’apertura verso ogni persona e ogni coscienza libera”. È così e questo gli ha consentito di aggiungere: “Se la presenza cristiana scomparisse dal Libano, l’equilibrio della nazione crollerebbe e la giustizia verrebbe meno. Se la presenza musulmana scomparisse dal Libano, l’equilibrio della nazione verrebbe compromesso e il suo assetto sarebbe sconvolto. E se il Libano venisse destabilizzato o alterato, l’alternativa sarebbe inevitabilmente la comparsa di nuove linee di frattura nella nostra regione e nel mondo, tra tutte le forme di estremismo: ideologico, materialistico e persino violento”. Aoun coglie un punto di rilievo, sebbene sappia che il ceto politico libanese non si è dimostrato in questi anni all’altezza della sfida. Ma è stato puntuale nella citazione conclusiva, la frase che pronunciò in Libano papa Giovanni Paolo II nel 1997: “Il Libano è più di un Paese, è un messaggio di coesistenza, pluralismo e libertà per l’Oriente e per l’Occidente”.

Il ceto politico ha custodito, difeso questo messaggio? Difficile rispondere affermativamente. E Papa Leone ha fatto capire con eleganza ma anche con una certa chiarezza che bisogna fare di più e meglio, molto meglio direi. Infatti nel suo primo discorso nel palazzo presidenziale ha detto: “Il Libano può vantare una società civile vivace, ben formata, ricca di giovani capaci di plasmare i sogni e le aspirazioni di un intero Paese. Vi incoraggio pertanto a non separarvi mai dalla vostra gente e a porvi al servizio del vostro popolo – così ricco nella sua varietà – con impegno e dedizione”. Nel suo discorso Leone ha evidenziato quello che ritiene il vero problema che affligge il mondo, ovunque: “Sembra avere vinto una sorta di pessimismo e sentimento di impotenza: le persone sembrano non riuscire più nemmeno a chiedersi che cosa possono fare per modificare il corso della storia. Le grandi decisioni sembrano essere prese da pochi e, spesso, a scapito del bene comune, è ciò appare a molti come un destino ineluttabile”.

Questo è vero anche per il Libano, dove i libanesi sono sì resilienti ma credono poco, molto poco, nel loro ceto politico, ancora fermo alle divisioni del tempo della guerra civile, conclusasi però nel 1990. Ecco allora che appaiono importanti se non decisive le parole che Leone ha dedicato alla riconciliazione: “Non c’è riconciliazione duratura senza un traguardo comune, senza un’apertura verso un futuro, nel quale il bene prevalga sul male subito o inflitto nel passato o nel presente. Una cultura della riconciliazione, perciò, non nasce solo dal basso, dalla disponibilità e dal coraggio di alcuni, ma ha bisogno di autorità e istituzioni che riconoscano il bene comune superiore a quello di parte. Il bene comune è più della somma di tanti interessi: avvicina il più possibile gli obiettivi di ciascuno e li muove in una direzione in cui tutti avranno di più che andando avanti da soli”.

Il discorso riguarda in prima persona i cristiani e le Chiese di questo Paese, che sono chiamate ad accompagnare questa riconciliazione tra politica e popolazione, tra chi governa con troppi privilegi e chi è governato. I timori di ridimensionamento che i cristiani non nascondono e che sarebbe inutile far finta che non ci siano e che non derivino dall’emigrazione per la durezza della crisi soprattutto economica, nascono anche dallo sguardo che si assume.

Se si guarda alla propria montagna, o vallata, il ridimensionamento è un destino. Se si allarga l’orizzonte, se passeggiando nel proprio cortile si sanno immaginare distese boschive,  praterie, il ridimensionamento è respinto per prima cosa dentro di noi.

Ecco allora che Beirut potrebbe tornare a pensarsi traino con la sua storia di città araba, mediterranea e occidentalizzata, avamposto di commerci non solo di merci, ma anche di idee. Questo può tornare ad essere Beirut e questa prospettiva non potrà che emergere domani, quando il papa pregherà in silenzio davanti al porto distrutto dalla recente esplosione. Un tentativo di urbicidio al quale la risposta dovrebbe essere di tutti i Paesi rivieraschi, per rifare del Mediterraneo un mare.


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