Non serve trasformare questa vicenda in un braccio di ferro politico permanente. Peraltro, dopo aver appreso che una decina di altri rettori avrebbero già manifestato la disponibilità e l’interesse delle loro università a collaborare con l’Accademia Militare di Modena. Ma serve dire con franchezza che questa è un’occasione mancata, che spero non diventi un precedente. Il commento del generale della Guardia di Finanza Alessandro Butticé, primo militare italiano in servizio, nel 1990, presso le istituzioni dell’Unione europea, e dirigente emerito della Commissione europea
Alla luce di quanto accaduto a Bologna, sento il dovere di intervenire pubblicamente. Non per alimentare polemiche sterili, ma perché ciò che è successo tocca il cuore del rapporto tra Forze Armate, Università e società democratica.
Parlo da soldato e Fiamma Gialla che ha servito lo Stato e l’Unione europea in uniforme per decenni e che oggi continua ad impegnarsi, come giornalista indipendente, anche nel contesto europeo e internazionale, dove la difesa non è mai solo questione di armi, ma soprattutto di valori, cultura, capacità di comprendere un mondo complesso.
Un errore culturale prima ancora che politico-accademico
La decisione del Dipartimento di Filosofia dell’Università Alma Mater di Bologna di non attivare un corso di laurea specificamente pensato per un gruppo selezionato di giovani allievi ufficiali dell’Accademia di Modena – per timore di “militarizzare la facoltà” – è, a mio avviso, una decisione profondamente sbagliata. Non solo discutibile, come hanno giustamente osservato, tra i tanti, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, e i ministri Guido Crosetto, Matteo Piantedosi e Anna Maria Bernini, ma miope sul piano culturale.
Qui non si trattava di mettere i blindati nel chiostro dell’Alma Mater. Si trattava di far sedere in aula, sui banchi, dieci o quindici giovani allievi ufficiali italiani – cittadini in uniforme, selezionati, motivati, che hanno scelto di servire in armi la Repubblica – per studiare filosofia, e non solo von Clausewitz e Sun Tzu.
Filosofia: non strategia nucleare, non dottrina d’impiego delle armi, ma “pensiero laterale”, come ha detto il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Carmine Masiello. Capacità critica, riflessione sull’uomo, sul potere, sulla giustizia, sulla guerra e sulla pace.
Se un’università ha paura di questo, il problema non è la “militarizzazione degli atenei”, ma la deresponsabilizzazione di chi avrebbe la missione di formare coscienze libere, non di alzare barriere ideologiche.
Dovremmo essere fieri di un esercito che ha ufficiali che studiano filosofia
In una democrazia matura, il fatto che il nostro Esercito – repubblicano, costituzionale, democratico – chieda ai propri ufficiali di studiare anche la filosofia dovrebbe essere motivo di orgoglio nazionale, non di sospetto.
Chi porta un’uniforme della Repubblica italiana non è un “esecutore automatico” di ordini, ma un professionista che agisce nel quadro di norme internazionali, del diritto umanitario, della Costituzione repubblicana. Più un militare è formato culturalmente, più è esposto al pensiero critico, più è capace di dire “no” a ordini illegittimi, più è difensore della legalità e dei diritti, non solo dei confini.
Un ufficiale che studia Kant, Arendt, Hobbes, Bobbio, che si interroga sul rapporto tra etica e politica, tra obbedienza e coscienza, tra sicurezza e libertà, è un presidio di garanzia democratica, non una minaccia.
Rifiutare questi giovani militari in quanto tali, per paura di “contaminazione militarista”, significa capovolgere la realtà: è proprio chi studia, chi dialoga, chi si mette in discussione che rende le Forze Armate più pienamente democratiche, trasparenti e integrate nella società.
L’Esercito italiano non è la caricatura militarista di Roberto Vannacci
C’è un altro punto che mi sta a cuore chiarire con forza: l’Esercito italiano non è – e non può essere ridotto a – la caricatura militarista rappresentata in certe uscite e in certe derive ideologiche, rese tristemente famose dal generale, oggi eurodeputato, Roberto Vannacci.
Quel tipo di narrazione, muscolare, identitaria, aggressiva, è lontanissima dalla realtà quotidiana della maggioranza delle donne e degli uomini in uniforme, che servono in silenzio, nel rispetto delle istituzioni e dei valori costituzionali. Come ho avuto modo più volte di affermare su Formiche.net.
Da figlio di Militare antimilitarista, e Militare io stesso, ora in congedo, ho sempre avuto un senso sacro di ciò che significa essere Militare della Repubblica Italiana. E la emme maiuscola non è a caso. Cioè di fedele servitore della patria e delle libere istituzioni, consapevole di accettare anche il rischio dell’estremo sacrificio. Che nulla ha a che fare con qualunque forma di militarismo, che altro non è che la caricatura dell’essere Militare della Repubblica Italiana.
L’Esercito che conosco – quello, di mio padre, e quello che ha operato nelle missioni internazionali, nella protezione civile, nelle strade al fianco delle forze di polizia, nell’assistenza alla popolazione durante calamità e pandemie – è fatto di professionalità, disciplina, spirito di servizio e senso del limite. Non di slogan muscolari.
Proprio per questo la scelta dell’Alma Mater di Bologna rischia di avere un effetto paradossale e pericoloso: alimentare, da entrambe le parti, gli estremismi.
Quando attorno all’Accademia Militare vengono alzati muri, cresce lo spazio per gli estremisti
Se l’università chiude le porte ai militari che vogliono studiare e dialogare, finisce per rafforzare due poli opposti e ugualmente dannosi. Da un lato, gli antimilitaristi radicali, che vedono in ogni uniforme una minaccia autoritaria. Molti dei quali sono probabilmente quelli che hanno recentemente vandalizzato la redazione de La Stampa a Torino, e Bologna, aggredendo le forze di polizia con il pretesto “Pro-Pal” e l’indulgenza di alcuni cattivi maestri (e maestre).
Dall’altro, i militaristi ideologici, che si sentiranno confermati nella loro idea che “certi ambienti” sono da “mondo al contrario”, ostili, elitari, “nemici del popolo in armi” e della “normalità”.
È questo il vero rischio dei fatti di Bologna: non un corso di filosofia in più o in meno – in un’università che, seppure la più antica del mondo Occidentale, non si ritrova oggi tra le prime 130 università del mondo – ma il rafforzamento di una frattura culturale.
Quando le Forze Armate vengono tenute fuori dagli spazi del pensiero – università, media, dibattito pubblico – il confronto civico si impoverisce, e il discorso sulla difesa viene lasciato alle caricature: il pacifismo ingenuo da un lato, il nazionalismo roboante dall’altro.
In mezzo, a pagare il prezzo, sono i cittadini e la qualità della nostra democrazia liberale.
Difendere l’autonomia accademica non significa rifiutare il dialogo
L’autonomia dei dipartimenti universitari è un valore, e va rispettata. Ma autonomia non significa autoreferenzialità. Nessuno, da quanto mi consta, chiedeva all’Università di Bologna di rinnegare i propri principi o di subordinarsi alla logica militare.
Si chiedeva l’esatto contrario: di misurarsi con essa, di offrire strumenti critici a chi, presto, dovrà comandare uomini e donne, oltre che gestire l’uso legittimo della forza in nome dello Stato. Un’università che ha paura di formare chi porta le stellette rinuncia a incidere proprio dove la sua voce sarebbe più preziosa.
Da militare anti-militarista, avrei preferito mille volte vedere un protocollo chiaro, trasparente, esigente – che definisse obiettivi, contenuti, garanzie – piuttosto che un rifiuto motivato da un generico timore di “militarizzazione”.
Una scelta da ripensare, per il bene di tutti
Non serve trasformare questa vicenda in un braccio di ferro politico permanente. Peraltro, dopo aver appreso che una decina di altri rettori avrebbero già manifestato la disponibilità e l’interesse delle loro università a collaborare con l’Accademia Militare di Modena. Ma serve dire con franchezza che questa è un’occasione mancata, che spero non diventi un precedente. Chiedo quindi, da ufficiale e da cittadino, oltre che da patriota italiano ed europeo, che si riapra il dialogo.
Che l’Esercito non rinunci alla sua illuminata volontà di continuare ad investire nella formazione anche umanistica e filosofica dei suoi quadri. E che le università italiane – tutte, non solo Bologna – considerino i militari non come corpi estranei, ma come parte della comunità nazionale che hanno contribuito a difendere per decenni, anche quando non andava di moda riconoscerlo. E che hanno, tra le istituzioni nazionali, la componente umana tra le piú professionali e rispettate non solo dai cittadini, ma anche dai nostri partner internazionali. Spesso molto più apprezzate e rispettate dello stesso corpo docenti di alcune università italiane. Nonostante le risorse finanziari ed i mezzi di cui dispongono non siano all’altezza delle attuali esigenze.
Se vogliamo quindi evitare che il dibattito sulla difesa sia appaltato agli estremisti – di qualunque colore – dobbiamo costruire più ponti, non muri. Essere fieri di un Esercito repubblicano che studia filosofia non significa “militarizzare l’università”.
Significa, molto più semplicemente, prendere sul serio la nostra Costituzione, che affida alle Forze Armate la difesa della Patria dentro un quadro democratico, non al di fuori di esso. Quella stessa Costituzione repubblicana ove una sola volta è utilizzato il termine “sacro”.
All’articolo 52, ove sancisce che “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino”. Non solo quindi delle Forze Armate.
E questo, lo si voglia o no, dovrebbe passare anche dai banchi e dagli uffici del Dipartimento di Filosofia dell’Alma Mater di Bologna, i cui signori docenti e discenti non possono permettersi di ignorarlo.
















