Lo Shahed-136 armato con un R-60 rappresenta un nuovo tassello nella sofisticazione dei droni russi. Pur restando un sistema economico e sacrificabile, l’aggiunta del missile introduce una minaccia concreta per i velivoli avversari. Un adattamento che testimonia la rapidità con cui Mosca sta evolvendo l’uso dei droni nel conflitto
Dal teatro ucraino arriva la notizia di una nuova evoluzione del famigerato drone kamikaze Shahed-136. Un video diffuso dall’Ong ucraina Sternenko Community Foundation mostra infatti uno dei sistemi unmanned di progettazione iraniana, abbattuto dalla contraerea ucraina, che monta immediatamente sopra il suo muso un missile aria-aria R60 caricato su una rotaia di lancio. Il R-60 (conosciuto anche in Occidente come Aa-8 Aphid) è un missile a ricerca termica di epoca sovietica che vanta dimensioni particolarmente compatte rispetto alla media di questa tipologia di missili, rendendolo particolarmente adatto ad un uso su sistemi più piccoli rispetto ai velivoli ad ala fissa per cui è stato originariamente concepito, anche se potrebbero esserci delle conseguenze dal punto di vista della stabilità o della manovrabilità.
Quest’integrazione rappresenta tuttavia uno sviluppo significativo per quel che concerne le dinamiche della guerra aerea. Disporre di sistemi d’arma aria-aria permette agli Shahed-136 di rappresentare una minaccia (soprattutto se impiegati in grandi quantità) per velivoli nemici, come elicotteri o jet, impiegati proprio in missioni di abbattimento di questi droni kamikaze, spesso in assenza di altri sistemi efficaci per contrastarli (il caso dell’incursione dei droni in Polonia di pochi mesi fa è significativo da questo punto di vista).
Ancora non sono disponibili informazioni sulle logiche di funzionamento del missile aria-aria, ma è quasi certo che sfrutti una capacità di controllo manuale che la Russia ha implementato su alcuni di questi droni. Scrivendo su The Warzone, Joseph Trevithick suggerisce che per collegare il drone a un operatore verrebbe utilizzato un collegamento dati in linea di vista, con le reti cellulari che offrono una connettività aggiuntiva quando disponibili. Inoltre, i ripetitori di segnale aerei potrebbero contribuire ad estendere la portata delle missioni con controllo manuale. Il montaggio dell’R-60 sul muso dello Shahed-136 potrebbe facilitare l’acquisizione e l’ingaggio del bersaglio, poiché l’operatore dovrebbe puntare il drone direttamente verso il bersaglio, con il missile che potrebbe quindi essere lanciato dopo l’invio di un segnale che indica che l’aggancio è stato effettuato.
Trevithick evidenzia anche l’assenza di informazioni su come i droni riuscirebbero a individuare le minacce aeree da ingaggiare. È possibile sia che i loro operatori ricevano indicazioni o direttive da risorse esterne, sia che operino semplicemente in modo puramente reattivo ai tentativi di intercettazione ucraini, cercando al contempo obiettivi opportunistici. Ma anche senza disporre di sistemi aria-aria, gli Shahed rappresentano comunque una minaccia verso gli aeromobili avversari, in particolare per gli elicotteri che volano più bassi e più lentamente, e che hanno anche una manovrabilità più limitata rispetto ai jet.
Quella di dotare droni con armamenti impiegati normalmente da sistemi più complessi non è una novità. Già in passato le forze armate degli Stati Uniti avevano provato a montare missili Stinger sui propri Predator, mentre gli stessi ucraini hanno installato missili della stessa famiglia degli R-60 sui propri Unmanned Surface Vessels. Tuttavia, è la prima volta che una loitering munition (e quindi un sistema considerato a priori come irrecuperabile) viene equipaggiata con simili capacità. Aprendo scenari nuovi dentro e fuori al conflitto in Ucraina.
(Immagine presa da X)
















