Dopo la presentazione del ddl Delrio sull’antisemitismo, nel Pd è scattato un vero e proprio cortocircuito. È l’epifenomeno di qualcosa di più profondo: la sinistra ha abbandonato gli ebrei, assecondando la base più movimentista. La destra, invece, avendo fatto i conti con il proprio passato, invita ad Atreju un superstite del 7 ottobre. Al Paese servono il premierato e una nuova legge elettorale. Il referendum sulla giustizia sarà lo spartiacque. Colloquio a tutto campo con il direttore del Riformista, Claudio Velardi
C’è un punto di frattura profonda nella sinistra italiana, un varco che – secondo Claudio Velardi, direttore de Il Riformista – rischia di trasformarsi in una perdita permanente di identità. Il detonatore è il ddl Delrio sull’antisemitismo, ma la carica esplosiva riguarda molto di più: il rapporto con Israele, la cultura politica del Pd, la natura stessa del campo progressista. Mentre la destra si ricompatta attorno a una linea filo-israeliana, la sinistra appare paralizzata da tatticismi interni. “Un rovesciamento storico”, dice Velardi, che investe categorie consolidate del Novecento e ridisegna gli equilibri politici del presente.
Partiamo dal ddl Delrio: perché questo tema sta diventando una faglia così profonda per il Pd?
Il Pd, per convenienze interne e per timore della sua base più movimentista, ha assunto una postura ostile nei confronti di Israele proprio mentre l’antisemitismo cresce in Europa e nel mondo. Il testo Delrio si fonda su principi internazionali ampiamente condivisi, ma il partito lo ha trattato come un oggetto correntizio. Un grande tema etico è stato trasformato in terreno di manovra tattica.
Lei parla di incapacità di leggere l’antisemitismo contemporaneo. Che cosa non vede la sinistra?
C’è un’incapacità culturale nel riconoscere come oggi si manifesti l’antisemitismo. Restano prigionieri di vecchi cliché sugli ebrei. Questo produce uno strappo enorme. E diventa evidente il contrasto con ciò che accade dall’altra parte: ad Atreju, Meloni porta un ragazzo rapito il 7 ottobre, una testimonianza limpida di solidarietà verso le vittime e verso Israele. Mentre la sinistra attacca il ddl Delrio.
Lei parla di ribaltamento delle categorie storiche: in che senso?
Il sionismo è nato all’interno della cultura socialista europea. Oggi tutto è capovolto. La destra ha fatto i conti con la storia ed è riuscita a costruire un rapporto lineare con Israele; la sinistra no, e questo è un errore strategico colossale.
Una ferita che, secondo lei, potrebbe diventare irreversibile.
Assolutamente. Ci sono persone che non torneranno più a sinistra per questa deriva. E non parlo solo della comunità ebraica: è una questione di credibilità, di identità smarrita.
La sinistra degli ultimi decenni è identificata come schieramento consustanziale al potere. In che modo questo incide sul quadro politico?
Per la sua storia recente, la sinistra è diventata un pezzo dell’establishment. E il grosso del deep state rimane ancora appannaggio della sinistra. È lì che la sinistra vuole tornare, ricomponendo tutti i pezzi. Ma sbaglia metodo. Si illude che basti mettere insieme gli anti-Meloni per vincere. È l’idea del campo largo: un’aggregazione senza visione.
Eppure nel 2006, con l’Unione, funzionò.
Allora il centrodestra era in crisi. Oggi non lo è. E il campo largo è persino peggiore di quella esperienza. Tra Renzi e Conte possono fare tutte le acrobazie politiche, ma Conte è un saltimbanco: non c’è alcuna possibilità che possano governare insieme.
Lei attribuisce al centrodestra una maggiore capacità di tenuta.
Il centrodestra ha sempre gestito differenze anche profonde senza bloccarsi sull’ideologia. E ha una leadership forte. Berlusconi nei suoi anni d’oro era così; Meloni oggi esercita una guida attenta e prudente, sia della maggioranza sia del Paese.
Avverte un rischio di logoramento per Meloni?
Sì. Il problema è che la sinistra, ridotta a forza protestataria, spinge la destra a restare sulla gestione quotidiana del Paese. Così si garantisce la sopravvivenza, ma al Paese serve una spinta in più. Meloni rischia di consumarsi nel ruolo di semplice amministratrice.
In questo quadro, il referendum sulla giustizia cosa rappresenta?
Lo spartiacque. Se Meloni si espone troppo, mobilita tutti — anche l’altro campo — e il rischio è che il referendum finisca con un no, che nei confermativi parte sempre favorito. Se invece non si impegna, il suo elettorato rischia di non andare a votare. È una partita delicatissima.
E le riforme? Cosa possiamo aspettarci su premierato e legge elettorale?
Molto dipenderà dal referendum. Se vince il sì, si può pensare a una spallata sulle altre riforme. La legge elettorale conviene a molti, anche nell’opposizione. Il premierato meno, ma potrebbe diventare un terreno di scambio. Al sistema converrebbe avere insieme una nuova capacità di rappresentanza — grazie al proporzionale — e una nuova capacità decisionale con il premierato.
















