La questione, eguale per tutti i Paesi del Nordafrica, è la gestione della crisi economica, con una progressiva minore disponibilità di risorse per le forze armate nazionali; a ciò si aggiunge la nuova configurazione degli Usa, della Cina e della Ue nell’area, tre attori globali che non hanno alcun interesse a gestire regimi costosi, corrotti, politicamente instabili e strategicamente irrilevanti; l’impatto delle tensioni regionali sulla strategia dei singoli Paesi e, soprattutto, una issue globale, quella del jihad delle organizzazioni legate ad al Qaeda da un antico bay’at, “giuramento nelle mani”, un tema che, non a caso, è stato subito agitato sia da Mubarak che da Ben Ali come dallo stesso Gheddafi, all’inizio delle rispettive rivolte.
E pensare che la Fratellanza Musulmana era operante di fatto, in Egitto, durante il passato regime del raìs Hosni Mubarak, e che Saif Al Islam Gheddafi, uno dei figli del colonnello libico, aveva gestito, poco prima dell’inizio della rivolta, un “programma di riabilitazione” dei jihadisti locali sul modello di quello organizzato dall’Arabia Saudita. In Marocco, peraltro, l’Iniziativa nazionale per lo sviluppo umano, sostenuta dal Re Mohammed VI e avente a disposizione un fondo di 2 miliardi di dollari, attiva fin dal 2005 (una operazione per garantire quello sviluppo delle aree marginali che, tradizionalmente, forniscono manovalanza per il jihad “della spada”) si è scontrata con una caduta verticale dei prezzi delle esportazioni marocchine (i fosfati, per esempio) e con la sostanziale inconvertibilità del dirham con le maggiori divise, salvo che per alcune specifiche transazioni, che spesso riguardano gli affari della Casa Reale.
In sostanza, se mancano i fondi per il rinnovamento e l’aggiornamento strategico delle Forze armate, inevitabile per fronteggiare il jihad, mancano anche fondi per evitare che si riduca il “brodo di coltura” della “guerra santa” contro “i crociati e gli ebrei”, per usare la formula classica della fatwa di Osama bin Laden. In linea di massima, tra jihad e crisi economica, nessun governo del Maghreb riesce a creare, nelle more di una crisi economica che colpisce le economie legate alle materie prime, un “dividendo della pace” che possa utilizzare i minori costi del sistema militare per generare sviluppo nelle economie nazionali.
Secondo alcune fonti, al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim) ha recentemente acquisito vasti depositi di armi nella Libia orientale, tra cui missili Sa-7, e li ha diretti in Mali e in Ciad, divenendo, in termini di guerriglia asimmetrica, l’esercito meglio armato e più aggiornato tecnologicamente dell’area, con depositi a Timedrine (Mali settentrionale) e nella regione del Tenerè nel Sahel. In altri termini, mentre i regimi del Maghreb, anche dopo le loro rivoluzioni democratiche, pensano in termini tradizionali alla strategia militare, e immaginano ancora una guerra regionale di difesa contro pressioni da parte delle nazioni vicine, al Qaeda va oltre, e si sta preparando, con ogni probabilità, ad una “guerra di lunga durata” tecnologica, diffusa, ai bordi del Maghreb, in contesti nei quali i regimi locali non avranno né la forza né, probabilmente, le risorse, per gestire uno scontro di rilievo internazionale e che, certamente, capitalizzerà le tensioni mai sopite tra le varie nazioni maghrebine.
Se, quindi, Aqim cesserà tra poco, come è probabile, di essere la “base” (al Qaeda, appunto) delle operazioni in Somalia e Afghanistan, allora il confronto locale tra la rete del jihad e le forze armate maghrebine potrebbe divenire dirompente, ma con la possibilità di Aqim di muoversi tra i vari Paesi, di utilizzare basi arretrate in zone sostanzialmente incontrollabili dai governi centrali e, soprattutto, di agire una guerriglia asimmetrica infinitamente più veloce delle reazioni del Marocco, dell’Algeria o della nuova Libia. Se, poi, la crisi economica dovesse, come è probabile, continuare e deformare definitivamente la posizione globale del Maghreb, le risorse per acquisire nuovi sistemi d’arma e per aggiornare la dottrina operativa sarebbero ancora più scarse, lasciando ad Aqim e ad altri probabili gruppi qaedisti di nuovo conio l’onere e la possibilità di gestire nuove azioni di destabilizzazione asimmetrica del nesso strategico tra Maghreb, Sahara e Africa centrale. Per Teheran è primario l’interesse di mantenere appoggio e buone relazioni con le “rivoluzioni di primavera” nel Maghreb per evitare un monopolio occidentale nell’area e per essere l’unico grande Paese islamico a ufficializzare l’accettazione dei nuovi assetti di potere nel Nordafrica.
Un nuovo asse si sta formando: il “cerchio sciita” nel Grande Medio Oriente, e una periferia sunnita di piccoli Stati maghrebini, con l’unica eccezione dell’Egitto, che avranno tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti con quella Teheran che potrà, da un lato, gestire una “protezione” dal jihad locale, e dall’altro sostenere una quota di aiuti economici quando gli occidentali se ne andranno e, infine, diminuire il linkage tra queste nuove organizzazioni politiche e Israele, il “piccolo satana” che Teheran vuole eliminare dalla carta geografica.
La dottrina strategica di Tunisi, anche dopo la fuga di Ben Ali, dovrebbe rimanere sostanzialmente la stessa. Per le forze armate tunisine, l’asse della propria global strategy rimane la difesa dei confini dai nemici tradizionalmente poco inclini al rispetto dei trattati e la protezione delle reti energetiche che passano dall’Algeria alla Libia fino alle coste tunisine, che sono essenziali per il sostentamento energetico europeo e, soprattutto, italiano. Se quindi mettiamo in conto che la Tunisia produce una media di 107.600 barili/giorno di petrolio (ultimi dati del 2009) e che le riserve di gas naturale sono rilevanti, allora si comprende come una strategia di protezione del territorio nazionale, unita alla garanzia della autonomia strategica di Tunisi, sia un elemento determinante che trapassa naturalmente dal periodo di Ben Ali ad oggi, e che è essenziale per la Nato (e anche per gli Usa) mantenere autonomo dal sistema Opec e dalle reti di controllo della produzione e dei prezzi, spesso indotte politicamente, che vengono gestite dall’Arabia Saudita e, in direzione opposta, oggi, dall’Iran.
Interesse strategico essenziale per la Nato oggi, in Africa settentrionale, e si spera anche degli Usa, è quello di un deciso decoupling delle azioni e delle scelte, sia energetiche sia militari, tra i vari attori del nuovo Maghreb, in modo che essi non raggiungano una “massa critica” che, certamente, avrebbe ogni interesse a unirsi alle strategie da “mercato del venditore” dell’Opec e, in correlazione con il mondo petrolifero arabo, della Federazione russa.
Ma, allargando il campo di analisi, quali sono le logiche strategiche di Israele e degli Usa, nel sistema politico-militare del nuovo Maghreb? Per lo Stato ebraico, la lettura della “primavera araba” si presenta molto complessa. Gerusalemme ha come interesse primario la gestione di un rapporto stabile con l’Egitto, teme che lo swarming delle piazze di Tunisi e del Cairo si ampli nella popolazione palestinese, il che farebbe divenire imprevedibile il rapporto tra Olp dei territori e Stato ebraico, con un prevedibile spostamento su posizioni più radicali di Mahmoud Abbas e del suo gruppo dirigente, per “tenere” le masse. Inoltre Israele sa bene che la situazione in Giordania è estremamente fluida, riguardo alla radicalizzazione islamista delle piazze, e senza una stabilità pro-israeliana nel Regno hashemita non vi è possibilità, per lo Stato ebraico, di controllare la continuità strategica, tutta ormai filo-jihadista, che va dall’Iraq alla Siria all’Arabia Saudita, e quindi la difesa del “nucleo” strategico di Israele diviene sommamente difficile. Infine Gerusalemme sa bene che se la “piazza araba” si islamizza, il suo peso nella global strategy Usa ed europea va scemando. Ma se lo Stato ebraico leggesse solo come “nemici potenziali” i nuovi regimi maghrebini, si tratterebbe di un pericoloso meccanismo di alienazione rispetto a una nuova, possibile, offerta strategica che provenisse da questi nuovi Stati. Se, quindi, la linea di Gerusalemme saprà uscire dall’immagine che altri tendono a cucirle addosso, e saprà offrire, in correlazione con Usa e Ue, un’offerta geopolitica e di sicurezza per il nuovo Maghreb, il potenziale negativo della correlazione di forze tra minacce asimmetriche e convenzionali da parte del mondo arabo potrebbe diminuire della quota che riguarda Tunisia, Egitto e, fra poco, Libia.
Siccome, poi, la storia si ripete, come diceva Hegel, due volte, allora si potrebbe immaginare, per depotenziare il potere di riferimento presente e futuro del jihad, l’Iran, una sorta di nuova “Mad” (Mutually assured destruction) tra lo Stato ebraico e la repubblica sciita iraniana che costringa Teheran ad una lunga trattativa, posto che quest’ultima non si rivolga ad azioni più convenzionali per compensare la sua lenta obsolescenza nucleare. Certamente, la soluzione ingenuamente “pluralista” degli Usa nel nuovo Maghreb e nel futuro Medio Oriente può creare le occasioni per l’inserimento nella struttura politica di quei Paesi di sostenitori, collaboratori e coperture delle organizzazioni jihadiste “coperte”, ma una attenta gestione della comunicazione, oltre ad una rimodulazione della minaccia strategica dello Stato ebraico nell’area, potrebbero evitare almeno i più pericolosi casi di jihadizzazione del discorso politico in Tunisia, in Egitto e tra poco in Libia.
Ma come vede, in effetti, il nuovo Medio Oriente e la “primavera araba” il mondo strategico Usa? In primo luogo, l’amministrazione Obama, e non poteva accadere diversamente, ha accolto con favore una rivolta popolare, imprevedibile per dimensioni e struttura, delle masse arabe, ne ha correttamente osservato gli effetti di ricomposizione della geopolitica del petrolio, tra i sauditi che osservano con scetticismo la nuova Tunisi e il nuovo Cairo, l’Iran che giocherà le sue carte a favore dei nuovi regimi politici, mentre Israele e gli stessi Usa non dovrebbero stare a guardare ed entrare “dentro” il processo di riformulazione di quegli Stati e delle loro politiche estere, per evitare che l’asse geoeconomico del nuovo Maghreb si sposti, appunto, verso Teheran mentre sarebbe la scelta ottima, per tutti, una ricomposizione degli interessi petroliferi ed economici dell’area maghrebina in correlazione con i Bric (Brasile, Russia, India, Cina) e con una nuova riformulazione del sistema Mena e dei finanziamenti dell’Unione europea all’area, oltre a una dottrina strategica che ponga la Union pour la Méditerranée come pivot geopolitico e difensivo per tutto il nuovo Maghreb. La Nato, poi, anche quindi con un ruolo chiave per gli Usa, dovrebbe ripensare la sua dottrina per il “Fianco sud” e integrare le reti di sicurezza dei vari Paesi usciti dalla “Primavera araba”.