Al di là del fatto che si tratta certamente di un documento con evidenti toni propagandistici ad uso interno dove la premessa di tutto è lo slogan “America First”, occorrerebbe leggerlo per bene prima di gridare allo scisma tra le opposte sponde dell’Atlantico oppure di affermare che il vero nemico individuato dal paper sia l’Europa. L’analisi di Stefano da Empoli, presidente di I-Com, Istituto per la Competitività
Non si è ancora sopito il clamore suscitato dalla pubblicazione della Strategia di sicurezza nazionale americana, una specie di masso nello stagno spesso paludato dell’opinione pubblica europea. Eppure dovrebbe essere arrivato il momento, dopo l’isteria di questi giorni, di guardarla a mente fredda.
Al di là del fatto che si tratta certamente di un documento con evidenti toni propagandistici ad uso interno dove la premessa di tutto è lo slogan “America First”, nulla di particolarmente sorprendente per chi segue le mosse di questa amministrazione, occorrerebbe leggerlo per bene prima di gridare allo scisma tra le opposte sponde dell’Atlantico oppure di affermare che il vero nemico individuato dal paper sia l’Europa. Laddove quest’ultima è sempre e soltanto citata come alleata e partner, di gran lunga la più importante per gli Usa.
Mentre è evidente in ogni pagina che la principale avversaria sia la Cina e in funzione di quest’ultima e del suo contenimento si debba leggere il documento. Intanto partendo da quello che viene messo nero su bianco. Ad esempio quando si scrive che “l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti. Il commercio transatlantico resta uno dei pilastri dell’economia globale e della prosperità americana. I settori europei, dalla manifattura alla tecnologia all’energia, rimangono tra i più solidi al mondo. L’Europa è luogo di ricerca scientifica all’avanguardia e di istituzioni culturali di livello mondiale. Non solo non possiamo permetterci di mettere da parte l’Europa — farlo sarebbe autolesionistico rispetto agli obiettivi che questa strategia intende raggiungere”.
Una riaffermazione molto forte del ruolo dell’Europa per gli Usa. Certo da contestualizzare nella piattaforma ideologica Maga, che trova nella lotta alla cultura woke e all’immigrazione incontrollata la sua principale cifra distintiva. Che talvolta rischia di sconfinare in aperto razzismo, quando ad esempio nella strategia si parla di possibili maggioranze demografiche non europee in Europa, come se si debba escludere che chi viene nel nostro continente non possa essere assimilato fino a essere considerato europeo al pari dei cittadini autoctoni. Ma su questo c’è poco da meravigliarsi anche perché è esattamente quanto l’amministrazione attuale sta affermando e facendo a livello di politica interna.
Normale che la pensi così anche per l’Europa e che dunque si debba leggere una frase come “l’America incoraggia i suoi alleati politici in Europa a promuovere questa rinascita dello spirito, e la crescente influenza dei partiti patriottici europei offre infatti motivo di grande ottimismo”. D’altronde, è naturale ed è quasi sempre successo che ogni amministrazione americana cerchi un rapporto privilegiato con i partiti più affini dall’altra parte dell’Atlantico. In questo caso queste affinità possono piacere di meno che in precedenti circostanze ma gridare alla lesa maestà sembra oggettivamente troppo.
Laddove sarebbe invece più maturo per la classe dirigente europea andare oltre il giusto orgoglio per la bandiera Ue, facendo tesoro dei due moniti strategici contenuti nel documento. Da un lato “consentire all’Europa di reggersi sulle proprie gambe e operare come un gruppo di nazioni sovrane allineate, anche assumendosi la responsabilità primaria della propria difesa, senza essere dominata da alcuna potenza avversaria”. Dall’altro, il riferimento al declino economico europeo, dovuto sicuramente a dinamiche demografiche ma anche a “regolamentazioni nazionali e sovranazionali che minano la creatività e l’operosità”.
Anche in quest’ultimo caso sarebbe puerile non ascoltare quanto ci viene detto in maniera probabilmente più brusca di quanto è stato scritto da Mario Draghi nel suo rapporto ma di fatto assolutamente convergente solo perché non ci piacciono i modi dell’interlocutore o perché ci immaginiamo che faccia l’interesse del proprio Paese. Cosa naturalmente vera ma se pensassimo che l’interesse degli Usa non possa essere conciliabile con quello europeo applicheremmo una logica da somma zero alle relazioni economiche. Proprio quella per la quale abbiamo criticato così tanto le politiche commerciali di Trump.
In questi giorni ne abbiamo avuto una prova con il dibattito sulla semplificazione delle regole europee sul reporting e sulla due diligence in materia Esg contenuta nel primo pacchetto Omnibus proposto dalla Commissione a inizio anno, giunto a uno snodo cruciale con l’accordo politico tra le tre istituzioni comunitarie trovato nelle prime ore del 9 dicembre (il comunicato stampa è delle 2:37 della notte). Soprattutto la direttiva sulla Corporate Sustainability Due Diligence (CSDDD o CS3D), più ancora di quella sulla Corporate Sustainability Reporting (CSRD), ha creato un pericoloso fronte commerciale con gli Usa ma non solo.
La CS3D imporrebbe alle imprese operanti in Europa di gestire e minimizzare i rischi derivanti da diritti umani, ambientali e climatici lungo tutta la catena del valore. In altre parole a poter essere impattate quantomeno indirettamente sono aziende di tutto il mondo, anche qualora non abbiano una presenza commerciale nei Paesi Ue. Con effetti che probabilmente nessuno può conoscere a priori e che peraltro potrebbero penalizzare gli stessi cittadini europei, a dimostrazione che gli interessi commerciali Usa sono del tutto conciliabili non solo con quelli delle imprese ma anche dei consumatori Ue.
Ad esempio, in una dichiarazione congiunta a ottobre, Stati Uniti e Qatar hanno avvisato l’Unione europea che le proprie forniture di energia potrebbero essere a rischio. Affermando di essere i primi a desiderare una Ue prospera e stabile, una posizione riaffermata con grande chiarezza la settimana scorsa da Andrew Puzder, ambasciatore americano a Bruxelles, in un op-ed sul Financial Times, nel quale ha scritto in premessa che “un alleato europeo prospero sarà un partner commerciale e di difesa più forte, capace sia di difendere se stesso sia di collaborare con gli Stati Uniti per affrontare le aree di crisi nel mondo. La crescita economica europea porterebbe benefici transatlantici”.
Aggiungendo poco dopo che “i rischi associati alla violazione della CS3D sono enormi, mentre la conformità è praticamente impossibile, in particolare per le complesse realtà energetiche internazionali. Per l’Ue, questo equivale a un suicidio economico. Secondo la CS3D, sarà praticamente impossibile per le grandi compagnie energetiche svolgere attività su larga scala in Europa, per non parlare del soddisfare le esigenze energetiche dell’Ue. ExxonMobil sta già riducendo la propria forza lavoro nell’Ue in previsione di ciò. Il Qatar ha informato l’Ue che interromperà le forniture di Gnl a meno che la CS3D non venga abrogata o significativamente indebolita”.
Una questione non proprio di poco conto visto che i due Paesi sono quelli dai quali importiamo la gran parte del gas naturale liquefatto e che ci hanno consentito senza eccessive noie di stracciare i contratti in essere con la Russia. Ma a poter essere penalizzate sono anche le piccole e medie imprese alle quali potrebbero essere imposte dalle grandi, soggette direttamente alla nuova legislazione, clausole contrattuali e audit per provare standard minimi di diritti dei lavoratori e di sicurezza più stringenti presso i fornitori, richieste di dati ambientali di difficile reperibilità nonché la possibile uscita da catene di fornitura ad alto rischio.
L’accordo raggiunto, che dovrà poi essere messo nero su bianco a livello tecnico prima di essere votato dal Consiglio e dal Parlamento, prevede tra l’altro l’innalzamento della soglia dimensionale di applicabilità diretta delle norme a 5000 dipendenti e 1,5 miliardi di euro di fatturato, l’eliminazione dell’obbligo per le aziende di definire piani di mitigazione climatica coerenti con gli accordi di Parigi, maggiore flessibilità per le imprese nel valutare i possibili impatti avversi, una riduzione delle sanzioni dal 5% al 3% del fatturato mondiale e lo slittamento di un anno della scadenza per il recepimento della direttiva negli ordinamenti nazionali al 26 luglio 2028 (con le imprese che dovranno conformarsi entro il luglio 2029).
Nonostante alcuni passi positivi siano stati fatti, rimane l’assurdità unita ad arroganza di una normativa nata da principi certamente encomiabili ma che potrebbe diventare un incubo non solo per le imprese direttamente soggette agli obblighi. Con il rischio che ulteriori aggiustamenti siano necessari in corso d’opera e si debbano individuare in extremis eventuali esenzioni nelle situazioni più a rischio (vedi forniture di gas). Con il risultato che la politica commerciale diventi à la carte. Un po’ quello che è accaduto negli Usa da inizio anno a questa parte. Ma guai a dirlo troppo ad alta voce. Anche se non sarà un caso che Politico abbia appena nominato il presidente americano la persona più potente nel definire la politica europea nel prossimo anno. Forse non tutto il male (apparente) viene per nuocere. Purché a Bruxelles e nelle capitali europee si sia in grado di cogliere la sfida e di girarla per il verso giusto.
















