L’accordo sulla riforma farmaceutica Ue chiude uno dei dossier più delicati degli ultimi vent’anni, ma lascia aperte molte fratture. L’industria innovativa boccia il compromesso, giudicandolo insufficiente a rilanciare l’attrattività europea a fronte del mutato scenario globale
Nel tentativo dichiarato di rafforzare la competitività, in Unione europea è stato raggiunto un accordo per la revisione più ampia e delicata della legislazione farmaceutica degli ultimi vent’anni. Un pacchetto di riforma complesso, ereditato dalla scorsa legislatura, che interviene su incentivi, proprietà intellettuale, sviluppo delle terapie e meccanismi di accesso. Secondo il testo concordato nel trilogo conclusosi ieri, le aziende continueranno a beneficiare di otto anni di protezione dei dati (durante i quali restano esclusive le informazioni generate da studi preclinici e clinici) e un anno di market protection, che impedisce l’ingresso immediato di generici e biosimilari. Il periodo può essere esteso in alcune circostanze, ma non oltre gli undici anni complessivi. Viene introdotto anche il nuovo voucher trasferibile di esclusività per incentivare lo sviluppo di antibiotici prioritari contro l’antimicrobico-resistenza: una misura attesa, ma accompagnata dalla cosiddetta blockbuster clause, che vieta l’utilizzo del buono su prodotti con vendite superiori a 490 milioni di euro annui negli ultimi quattro anni, per limitare l’impatto sui bilanci sanitari nazionali.
IL COMMENTO DELL’INDUSTRIA: UN AUTOGOL PER L’EUROPA
La protezione della proprietà intellettuale è stata fin dall’inizio il nodo più sensibile di tutta la riforma. La Commissione aveva proposto di ridurla a sei anni; il compromesso finale torna allo status quo, ma per molti non basta. “La pharma-strategy europea è un autogol, sia dal punto di vista dell’industria farmaceutica sia per i pazienti, perché un contesto non attrattivo per l’innovazione non lo è nemmeno per la qualità delle cure”, ha commentato Marcello Cattani, presidente di Farmindustria. “L’Ue – ha spiegato – ha scelto di infliggersi una riduzione rispetto agli attuali standard di proprietà intellettuale. Il limite massimo fissato per data e market protection (una base di 9 anni che possono arrivare a 11, ma solo a fronte di condizionalità che sono fattore di incertezza) è inferiore rispetto a quello degli Usa (12,5 anni) che la Cina si è invece posta come obiettivo”. Le conseguenze di questa “mancata visione strategica” – lo dice a chiare lettere il presidente di Farmindustria – è il rischio di una crescente dipendenza dagli Usa e Cina. Critiche anche da parte di Efpia: “La nostra regione ha perso un quarto della propria quota globale di investimenti negli ultimi vent’anni, mentre le sperimentazioni cliniche si sono dimezzate”, ricorda la direttrice generale Nathalie Moll. “Se questo è il quadro legislativo che dovrebbe attrarre l’innovazione dei prossimi vent’anni, l’esito dei triloghi è deludente”, ha aggiunto. Simile la linea di Claire Skentelbery, direttrice generale di EuropaBio, che oltre a sottolineare le criticità legate alla insufficiente protezione per i medicinali orfani, ha dichiarato: “Il livello di ambizione non riflette i cambiamenti sismici che stanno ridefinendo il futuro dell’innovazione e dei pazienti”. Il pacchetto viene dunque giudicato nel complesso insufficiente a invertire la fuga di investimenti.
CHI CORRE PIÙ VELOCE?
La visione che emerge è quella di un’Europa che, di fronte a un contesto internazionale in rapido mutamento, rischia non solo di aver mancato l’occasione di anticipare i cambiamenti, ma anche di non essere messa in condizione di a tenere il passo. Negli Stati Uniti, il presidente Donald Trump continua a muoversi con l’obiettivo dichiarato di voler riportare la manifattura farmaceutica sul suolo nazionale, inserendo la politica industriale al centro della sua strategia sanitaria, attraendo investimenti record. Secondo un report rilanciato da FiercePharma, nel 2025 i principali gruppi farmaceutici hanno annunciato complessivamente oltre 370 miliardi di dollari di investimenti in progetti statunitensi nei prossimi cinque anni. Parallelamente, l’annuncio della Most favoured nation policy dello scorso maggio e la recente intesa Usa-Uk relativa all’esenzione dai dazi a fronte di una riclassificazione della spesa farmaceutica da parte del Nhs, mostrano come la partita globale si giochi sulla capacità di riconoscere e valorizzare l’innovazione. Pechino oggi invece è seconda solo agli Stati Uniti per contributo di farmaci innovativi alle pipeline globali, rappresentando circa il 23% delle nuove molecole. Un crescita che si riflette anche sui trial – con la quota cinese a livello globale raddoppiata dal 2018 anche grazie a investimenti consistenti – e sul mercato delle partnership. Quest’anno, quasi il 40% degli accordi internazionali di licensing riguarda anticorpi, terapie cardiovascolari e altri candidati farmaco sviluppati in Cina, a fronte di una quota inferiore al 3% appena cinque anni fa. Tra il 2020 e il 2025, undici grandi multinazionali del farmaco hanno investito oltre 150 miliardi di dollari in asset innovativi provenienti dall’Asia – e in larga parte da Pechino – a conferma di un ecosistema che non può essere più considerato solo emergente. Per l’industria, l’Europa rischia di cedere il passo. E dovendo affrontare una competizione globale che corre a ritmi molto più veloci, serve una rotta chiara che metta al centro innovazione, investimenti e attrattività del continente. “È urgente che l’Europa adotti una nuova visione di sicurezza, autonomia e protezione dei propri cittadini”, ha sottolineato ancora Cattani. Il testo dell’accordo dovrà ora essere ratificato sia dal Consiglio dell’Unione europea sia dal Parlamento europeo, prima dell’entrata in vigore.
















