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La politica deve rientrare in Parlamento. L’auspicio di Sisci

La politica italiana ha smarrito il suo cuore: il Parlamento. Un tempo centro del dibattito e delle grandi idee, oggi è isolato, mentre i partiti inseguono slogan e like. Senza una nuova legittimità e il ritorno degli intellettuali, il rischio è la frantumazione o peggio, la deriva autoritaria. La riflessione di Francesco Sisci

Il problema forse è questo. Negli anni ‘70 un dibattito politico era quello sui gruppi della sinistra extraparlamentare, se dovessero partecipare o meno alle elezioni. I partiti al Parlamento erano convinti che il Manifesto, Avanguardia operaia, Lotta Continua, le tre formazioni principali di una galassia pulviscolare, dovessero presentarsi alle elezioni. Poi toccò anche ai Radicali, miccia di grandi cambiamenti sociali con i referendum sul divorzio e sull’aborto.

Inoltre, la discussione intellettuale era sui grandi giornali, sulle riviste teoriche. Pasolini, Ronchey, venivano da lì e frequentavano il Parlamento. I partiti, la Dc, il Pci, il Psi, reclutavano intellettuali dai giornali e dal mondo della cultura, tra i grandi funzionari dello Stato. Il Parlamento era e doveva restare centrale. Erano memori degli antifascisti rifugiatisi all’Aventino per delegittimare Mussolini che voleva fare di Montecitorio un accampamento di manipoli.

Berlusconi stesso nel suo primo governo reclutò una serie di intellettuali, Urbani, Martino, Pera. Oggi il dibattito in Parlamento non c’è. I partiti non reclutano intellettuali anzi li tengono a distanza. I giornali non li compra nessuno e quasi nessuno li vuole. Il dibattito vero si fa su piccole testate e sui post di X o Facebook.

È il mondo che è cambiato con l’evoluzione delle tecnologie, ma, come ha spiegato qualche giorno fa Luigi Zanda, c’è anche altro. C’è l’assottigliarsi della passione per i grandi temi della politica da parte dei politici stessi. Essi sono spesso all’inseguimento di formulette semplificate per affrontare l’ultima emergenza quotidiana invece di cercare di comprendere la complessità crescente.

Il risultato è banale. Oltre il 50% della gente non va a votare. Al referendum sulla riforma della giustizia, un cambiamento costituzionale forse parteciperà il 30% degli elettori. I politici sono tra le categorie più screditate del Paese.

Solo nel 2025 forse 150mila giovani italiani, tra i migliori, sono emigrati all’estero. Sarebbero un paio di milioni i giovani ormai fuori dal Paese. Qualcuno strepita sulla mancata natalità, ma a che servono più ragazzi se poi non restano in Italia?

Per gli stranieri emigrati è parallelo. Sono circa due milioni, pagano le tasse ma sono senza cittadinanza e senza diritto al voto. Cioè non partecipano al dibattito civile. È ancora uguale per la finanza. I risparmiatori italiani sono gli unici dei Paesi avanzati che esportano capitali e investono all’estero – non hanno fiducia nel Paese.

La sicurezza per le strade, dai borseggiatori, dalla piccola criminalità, che rende la vita difficile alla gente comune, invece di essere una questione di stato, è ostaggio di polemiche ideologiche fra destra e sinistra.

C’è una voragine di rappresentanza quasi totale. Il Paese è governato da una classe autoreferenziale. La politica si è delegittimata da sola. Probabilmente se non ci fossero i vincoli della Unione europea e della Nato lo stato politico avrebbe già smesso di esistere o sarebbe diventato altro.

‎Eppure, al di là di questo elenco demoralizzante, il Paese è pieno di risorse e vitalità. Le opinioni marginalizzate sono quelle autentiche, le preoccupazioni vere della nazione e per la nazione. Ignorarle fa male a tutti, a cominciare da chi il paese lo guida.

La politica, senza estremismi, con prudenza, calcolo, dovrebbe essere passione, missione. Non è un lavoro al catasto, un posto fisso con poltrona fissa, che a perderla non si sa che fare. Senza questo impegno, la fragilità italiana diventa molto pericolosa.

Il capo dello MI6 britannico ha raccontato che la strategia della Russia è esportare caos. La strage di Bondi in Australia dimostra che l’indifferenza o la simpatia più o meno nascosta per l’antisemitismo dei Pro-Pal sono stati i semi da cui sono nati e nasceranno nuovi frutti avvelenati. Lo stesso era avvenuto tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 in Italia. Slogan estremisti, spregiudicati hanno preparato il terreno al terrorismo che ha bruciato il Paese per oltre un decennio.

La somma della negligenza per l’antisemitismo e l’esportazione del caos russo dà una miscela esplosiva. Tanto più se si applica a un Paese con tante fragilità, anello debole di Ue e Nato. Dopo Bondi l’ipotesi che attentati feroci si ripetano in Italia non è peregrina.

Ora, come negli anni ’70 la risposta non può essere solo di polizia. L’Italia fermò e invertì l’ondata terrorista con la politica, reclutando forze non governative come il Pci. Così si uscì dall’emergenza preservando la democrazia.

Il Parlamento deve uscire dal suo isolamento, la politica deve trovare una sua nuova ampia legittimità. Deve recuperare forze intellettuali autentiche per proteggere sé stesso e la democrazia, altrimenti il rischio oltre alla frantumazione è della dittatura.


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