Dal palco di Atreju Meloni lancia messaggi ai suoi, ma alza il livello dello scontro in assenza del nemico alle porte. Questo porta a un’esacerbazione del clima che non fa bene e, a tendere, rischia di stancare l’elettorato non polarizzato. La leader del Pd Schlein ha fatto bene a non partecipare alla kermesse e, dopo gli ultimi passaggi interni al partito, esce rafforzata. Conversazione con Francesco Nicodemo, comunicatore politico e fondatore di Lievito Consulting
Atreju è il luogo dove il potere si racconta e si misura. Non è più soltanto una festa politica: è il palcoscenico su cui Giorgia Meloni prova a tenere insieme governo e identità, istituzione e militanza. Ma ogni narrazione, quando si ripete, rischia di mostrare le crepe. In un’Italia che vota poco, si fida ancora meno e guarda la politica con crescente distanza, la comunicazione diventa una linea di confine sottile tra consenso e saturazione. Di questo, e del duello sempre più esplicito tra Meloni e la segretaria del Pd Elly Schlein, parliamo con Francesco Nicodemo, comunicatore politico ed esperto di strategie di comunicazione, fondatore di Lievito Consulting.
Atreju cambia pelle. È ancora una festa di partito o ormai è qualcos’altro?
Atreju è un format che funziona e che ha raggiunto una maturità evidente. Rispetto agli anni passati sta cercando di diventare qualcosa di diverso: a me ricorda un misto tra le vecchie feste di partito, un evento nazionale e popolare, e la Leopolda. C’è il tentativo, riuscito, di parlare a una fetta più larga di persone, non solo ai propri elettori. Ed è questo che la rende centrale: determina l’agenda setting del Paese.
Meloni, sul palco, utilizza un doppio registro. Una volta si sarebbe detto: di lotta e di governo. È una dicotomia efficace?
È la cosa che più mi sorprende. C’è una doppia Meloni. Da un lato la Presidente del Consiglio: maggioranza stabile, una coalizione che dipende da lei, un partito leninista che risponde esclusivamente a lei. Governa senza veri problemi, anche se i risultati sono abbastanza claudicanti, perfino sui temi a loro più cari.
E l’altra Meloni?
Quando veste i panni della comiziante, snocciola i nemici: la sinistra, Elly Schlein in particolare, chiunque serva alla narrazione. In quella kermesse emerge una Meloni più missina, più identitaria. Senz’altro questo registro rafforza il rapporto con i suoi, ma dopo un po’ stanca. Tra le persone comuni, tendenzialmente disinteressate, non paga. È un dialogo troppo esacerbato.
Il linguaggio dello scontro è diventato controproducente?
Ci sono cose che non trovo necessarie: dire che “la sinistra porta sfiga”, cercare nemici a ogni costo. Alla lunga stufa. Capisco la necessità di dare messaggi forti, ma così si rischia di allontanare l’elettorato. Meloni oggi il nemico alle porte non ce l’ha. Non c’è bisogno di alzare continuamente il livello dello scontro.
Elettoralmente questa tecnica narrativa funziona ancora?
Parla a una platea precisa: in un Paese dove va a votare circa il 60% degli italiani, questa narrazione è costruita per loro. Non per allargare, ma per consolidare. Il problema è che il consenso non cresce all’infinito se racconti un Paese trionfante che le persone non riconoscono nella loro vita quotidiana.
Schlein ha scelto di non andare ad Atreju. Scelta giusta?
Sì, ha fatto bene. Quel dialogo a distanza chiarisce una cosa: il confronto è tra loro due. Meloni, di fatto, non ha fatto confronti con nessuno. L’assenza di Schlein è stata una scelta positiva, coerente, che rafforza lo schema del duello.
Le regionali hanno rafforzato la segretaria del Pd?
Assolutamente sì. È stata un’operazione a segno positivo. Schlein ha portato a casa l’unità della coalizione, ha riconfermato le regioni e, dopo gli ultimi passaggi all’assemblea nazionale, ha rafforzato anche l’unità interna del partito. La sua leadership ne esce più solida.
Quindi lo schema è chiaro: Meloni contro Schlein?
Esattamente. È una partita aperta tra due leadership. Meloni resta forte, Schlein è chiaramente rafforzata. Il Pd ha ancora margini di crescita e la coalizione oggi è competitiva. Non è più un confronto sbilanciato.
Il rischio per Meloni qual è?
Una narrazione troppo trionfalistica. Il problema è che, al netto dei racconti, le persone non stanno meglio di prima. E prima o poi, quel divario tra racconto e realtà, presenta il conto.
















