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Chi e perché ha deciso che lo stop ai motori termici del 2035 va cancellato

L’estrema dipendenza europea dalle terre rare, che sono una esclusività cinese, resta un tema irrisolto. “C’è il rischio che la futura mappa dell’industria automobilistica mondiale venga disegnata senza l’Europa”, aveva affermato cinque mesi fa il responsabile dell’industria dell’Ue Stéphane Séjourné. Ora si certifica che l’industria automobilistica europea è “in pericolo mortale”, ha aggiunto…

Ieri fu il pilastro del programma green della precedente commissione, oggi è la causa della crisi dell’automotive. Il “2035”, come concetto prima che come data, non segnerà la fine del motore termico, tra le altre cose caposaldo industriale del Novecento: dopo un anno di consultazioni con le parti interessate dell’industria automobilistica, la Commissione europea è venuta incontro alle esigenze improrogabili delle case automobilistiche, quindi ha eliminato l’obbligo di emissioni zero per le nuove auto entro il 2035, riducendo invece le emissioni del 90% rispetto al 2021.

Un passo che nei fatti sana l’accelerazione imposta dalla dottrina Timmermans che, senza valutare attentamente le conseguenze industriali e occupazionali, aveva consegnato l’intero mondo dell’automotive alla dipendenza cinese. In questo modo le case automobilistiche tedesche ottengono una tregua sulle emissioni, consentendo a Porsche, Audi, BMW e Mercedes di continuare a vendere auto con motore a combustione interna, evitando (forse) migliaia licenziamenti.

Una decisione che ha trovato il consenso anche del governo italiano secondo cui, “gli sforzi profusi dal nostro Governo negli ultimi mesi hanno portato ad aprire una breccia nel muro del dogmatismo verde che ha caratterizzato gli ultimi anni”, come detto nell’aula della Camera dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni , nel corso delle comunicazioni in vista della riunione del Consiglio europeo del 18 e 19 dicembre. Un modus tarato sul pragmatismo e non sull’ideologia, come detto su queste colonne dall’eurodeputato di Fdi/Ecr Carlo Fidanza. 

Il ragionamento fatto a Bruelles poggia sulla convinzione che tecnologie diverse dai veicoli elettrici a batteria potranno essere immesse sul mercato dopo il 2035. Una flessibilità, dunque, che lascia al consumatore la libertà di decidere quale tecnologia usare e alle case automobilistiche il tempo di programmare scelte e progetti.

Non va dimenticato che la crisi dell’industria automobilistica tedesca sta avendo ripercussioni sulle regioni più ricche e sulle tasche dei residenti. Si pensi a capisaldi industriali come Stoccarda, Wolfsburg, Ingolstadt rispettivamente sedi di Mercedes, Volkswagen e Audi. Non solo drastici cali delle entrate fiscali, ma aziende in estrema difficoltà, con bilanci in affanno, nuovi prestiti, tasse più alte e licenziamenti.

Al contrario, le auto elettriche cinesi hanno fatto segnare un vero e proprio boom nello scorso settembre grazie al raddoppio dell’export di veicoli elettrici made in China, mentre in Europa le fabbriche sono sempre più a rischio perché gli impianti lavorano al 55% della capacità, con pesanti ripercussioni sulla redditività. Infine l’accelerata di Byd: è allo studio l’apertura del terzo polo industriale europeo, forse in Spagna. Un quadro di insieme che era già chiaro sin da prima dell’avvio della dottrina Timmermans.

Il pacchetto deciso dall’Ue, però, lascia irrisolte altre criticità del settore che preoccupano non poco i produttori. Senza ulteriori interventi entro il 2035 potrebbero essere a rischio fino a 650.000 posti di lavoro a causa della delocalizzazione della filiera, lamenta il CLEPA (European Association of Automotive Suppliers).

L’estrema dipendenza europea dalle terre rare che sono una esclusività cinese resta un tema irrisolto. “C’è il rischio che la futura mappa dell’industria automobilistica mondiale venga disegnata senza l’Europa”, aveva affermato cinque mesi fa il responsabile dell’industria dell’Ue Stéphane Séjourné, ora si certifica che l’industria automobilistica europea è “in pericolo mortale”, ha aggiunto. Ma si può ancora intervenire per combattere le vendite in calo, gli elevati prezzi dell’energia, la crescente concorrenza globale. A patto di volerlo.


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