Il bilanciamento tra fattori favorevoli e sfavorevoli all’IA determinerà probabilmente le distanze di sviluppo economico tra i Paesi nel prossimo decennio. E anche l’Italia, al pari degli altri paesi avanzati, si trova a una svolta tecnologica fondamentale: deve concentrare su questo tornante i maggiori sforzi se non intende perdere una grande occasione di sviluppo in ogni senso. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse
Con la recente pubblicazione dell’Istat sull’andamento della produttività si completa il quadro sintetico dell’evoluzione della crescita economica italiana nell’anno che volge al termine. In breve, l’aumento dell’occupazione si è accompagnato a una crescita stagnante col risultato inevitabile che dovrebbe rispecchiarsi in un calo della produttività del lavoro, se non compensato da altri fattori. Già nel 2024, per il secondo anno consecutivo, questa misura della produttività ha accusato un calo significativo (-1,9%): all’aumento consistente delle ore lavorate (2,3%) non ha corrisposto un incremento ancor maggiore del valore aggiunto effettivo (reale), che invece non ha superato lo 0,4%. Si può supporre che questa disparità sia continuata quest’anno in cui l’impiego del lavoro è avanzato verso picchi raggiunti solo in anni lontani senza produrre l’accelerazione della ripresa economica che si attende da tempo, grazie anche alle opere del Pnrr.
Per un paese con una popolazione in perdurante decremento, qual è il nostro, l’avanzamento della produttività congiuntamente col progresso tecnologico rappresenta la chiave di volta per salvaguardare il livello di benessere raggiunto e continuare a migliorarlo, come avviene nei paesi avanzati. Se non si riesce ad accrescere la quantità di prodotto ottenuto dalle risorse produttive e soprattutto dal lavoro è molto arduo attendersi una crescita che soddisfi le aspirazioni della società al benessere.
La produttività complessiva di un’economia viene generalmente analizzata nelle sue componenti di quantità di lavoro, capitale ed efficienza nel loro impiego integrato (Tfp) nel contesto dell’unità produttiva, ossia l’impresa. Rileva altresì la qualità del capitale umano che può generare sviluppo a parità degli altri fattori e deriva da istruzione, competenze avanzate, innovazione, avanzamento tecnologico. Il calo della produttività del lavoro nel biennio scorso interrompe i miglioramenti realizzati negli anni dal 2009 in poi, che avevano permesso di elevare la media all’1% per anno. Nell’insieme degli ultimi dieci anni si è tornati su incrementi medi dello 0,3% all’anno, che rappresenta il ritmo di lungo periodo registrato dal 1995 al 2024. A questa andatura l’economia sembra intrappolata in una dinamica stagnante da cui non riesce a districarsi se non di poco e per pochi anni. Una dinamica peggiore di quella dell’insieme dell’Ue, con un distacco medio di 0,8 punti percentuali all’anno negli ultimi dieci anni.
Il rallentamento della produttività del lavoro si riscontra in gran parte delle economie avanzate, ma nella nostra assume intensità peggiori. Scomponendo questo andamento nelle due componenti di quantità di prodotto e numero di ore lavorate, si osserva che rispetto ai nostri maggiori partner nell’Ue in Italia si deve impiegare una maggiore quantità di lavoro per ottenere una stessa unità di prodotto. In particolare, dal 2014 il valore aggiunto in media è aumentato più che in Germania e Francia, ma si è accompagnato a un più esteso input di lavoro. In Spagna, invece, entrambi, valore aggiunto e ore di lavoro, sono aumentati più che in Italia, ma il primo supera maggiormente il secondo.
A spiegare la debole produttività del lavoro concorre quella del capitale, perché dalla combinazione dei due fattori, oltre ai restanti, deriva il valore aggiunto. Rapportando quest’ultimo ai servizi forniti dalle diverse forme (materiali ed immateriali) di investimenti si rileva una dinamica della produttività consistente (1,6% in media annua dal 2014) nonostante la sostanziale stagnazione degli stessi investimenti nella media del decennio. In altri termini, si è generato più valore aggiunto pur investendo poco. Questa debolezza non riguarda gli investimenti in tecnologie Ict (inclusi software e banche dati), aumentate in media del 3%, né quelli immateriali non-Ict, che comprendono R&S e proprietà intellettuale (2,9%). Ristagnano, di contro, i restanti input materiali, con il risultato che l’intensità complessiva di capitale per ora lavorata diminuisce.
Dal miglioramento della combinazione di tutti i fattori, ovvero dalla produttività multifattoriale (Tfp) è invece derivato un apporto positivo alla crescita del valore aggiunto per ora lavorata, a indicare che si sta realizzando uno spostamento della produzione verso nuovi modelli organizzativi, resi possibili dall’innesto di tecnologie avanzate. Ne è conferma la differenza tra i settori: i progressi maggiori sono realizzati nelle attività finanziarie ed assicurative, e nei servizi di informatica e comunicazioni.
Parte della rivoluzione tecnologica in atto è innescato dall’impiego dell’Intelligenza Artificiale che nelle sue diverse declinazioni ha visto proprio questi due settori tra i primi a recepirla. Ma l’adozione tra tutte le imprese si sta diffondendo con una rapidità crescente, mostrando un’intensificazione all’aumentare della dimensione d’impresa. Secondo l’Istat, nel corrente anno si è visto un raddoppio del tasso di adozione rispetto al precedente (dal 8,2% al 16,4%), con percentuali superiori alla metà delle imprese nel settore informatica e informazione, e molto consistenti nei servizi audio-visivi e in quelli delle comunicazioni. In termini di utilizzo, le applicazioni più frequenti sono funzionali all’estrazione di informazioni, all’IA generativa e al riconoscimento vocale. Minoritario, invece, l’impiego per l’automazione dei flussi di lavoro (18% circa).
Il Paese, come gran parte di quelli europei, si trova negli stadi iniziali di penetrazione di questa tecnologia, con l’83% delle imprese ancora al di fuori. Pertanto, rimane un notevole spazio per una grande diffusione, che se dovesse perdurare ai ritmi attuali produrrebbe un radicale rinnovamento del tessuto imprenditoriale. Attualmente l’IA è impiegata principalmente per il marketing e le vendite, e per i processi amministrativi (rispettivamente 33% e 26% di imprese), con una quota ancor più contenuta per la ricerca ed innovazione (20%). Una parte numericamente consistente di imprese sta anche valutando l’adozione e gli utilizzi più convenienti, un aspetto da considerare come il segnale di un processo di rincorsa al rinnovamento, che non può che fondarsi sull’acquisire piena consapevolezza dei modi di estrarre valore da questo investimento. Per ampliare la penetrazione occorre, tuttavia, superare diversi ostacoli, che assumono dimensioni disincentivanti soprattutto per le imprese di minori dimensioni.
Per la maggioranza il principale impedimento deriva dalla carenza di competenze adeguate, a cui si aggiungono nell’ordine l’insufficiente chiarezza della disciplina normativa, l’inadeguatezza dei dati su cui fondare le applicazioni, le preoccupazioni sulla loro protezione, e non da ultimo l’entità dei costi. Maggiori dettagli si traggono dalla più recente indagine di Confindustria tra le sue affiliate. Tra quelle che hanno innestato l’IA nei loro sistemi e tra quelle che lo stanno valutando, oltre alla carenza di competenze interne influisce la complessità di integrazione nei sistemi, i costi, la sicurezza dei dati e le resistenze del personale al cambiamento (21%).
È probabile che il timore tra il personale si spieghi col rischio che l’automazione dei compiti resa possibile dall’IA conduca al ridimensionamento dell’occupazione. In realtà, quasi la metà delle aziende con oltre 100 dipendenti tanto nell’industria che nei servizi la utilizza per l’automazione e i servizi ai clienti. Tra quelle che l’adottano il 44% ne vede già i benefici in termini di automazione di compiti ripetitivi e una quota altrettanto consistente si attende di realizzarli in futuro. Nondimeno, soltanto nel 2% è stato ridotto il personale e il 15% prevede di farlo per il futuro. Si direbbe una minoranza marginale, che peraltro potrebbe rinfoltirsi notevolmente con il progredire della diffusione della IA e la completa integrazione nei processi produttivi.
A livello aggregato l’effetto più rilevante dovrebbe manifestarsi nell’impulso al miglioramento della produttività, specialmente quella del lavoro. In particolare, l’ostacolo della scarsità di competenze specifiche nell’IA viene affrontato attualmente con investimenti delle imprese nella formazione dei propri addetti. Il 72% delle imprese consultate da Confindustria è impegnato in questa opera, mentre il 40% fa ricorso a risorse esterne per impiantare modelli di IA. Tra le imprese più grandi e strutturate maggiore è la propensione a investire nella formazione, mentre per la maggioranza di quelle minori il compito si presenta più arduo.
È quindi ragionevole attendersi che l’impatto sulla produttività del lavoro andrà rafforzandosi nei prossimi anni. Le stime sugli effetti in termini quantitativi sono diverse e variano lungo un’ampia gamma di percentuali di crescita a seconda delle ipotesi assunte a base. In breve, su una prospettiva decennale il contributo dell’IA è stimato entro una fascia che va dal picco di 3,5 punti percentuali al minimo che è inferiore a 0,5 punti. Gli effetti di accelerazione della dinamica annuale del Pil sarebbero inferiori ma consistenti: secondo alcune stime, sarebbero attorno a 0,35 punti per gli Usa e 0,15 punti per l’Europa, in quanto avanza meno rapidamente del leader americano. La varietà di stime non deve sorprendere perché diversi fattori sono di difficile ponderazione e differenziano i paesi più avanzati dai ritardatari.
Sono altresì da considerare alcuni fattori frenanti dal peso differente a seconda del paese. Tra questi gravano il costo e i tempi per le infrastrutture fisiche dei “centri dati”, il potenziamento della generazione di energia elettrica per la loro alimentazione, il rafforzamento delle linee di trasmissione, lo sviluppo di algoritmi ritagliati sulle esigenze specifiche delle imprese, la disponibilità di dati per allenare gli algoritmi, la capacità di effettuare computing ad alte prestazioni o il ricorso al cloud computing, la messa in comune delle nuove conoscenze (modelli open source vs. proprietary), la formazione e la disciplina del lavoro, le regolamentazioni sull’impiego dell’IA e la propensione dei mercati finanziari a soddisfare il fabbisogno ingente di capitale. Ad esempio, si stima che tra il 65% e 70% dell’attuale spesa americana registrata investimenti in IA riguardi in effetti strutture fisiche che appartengono ai settori manifattura e costruzioni.
Il bilanciamento tra fattori favorevoli e sfavorevoli all’IA determinerà probabilmente le distanze di sviluppo economico tra i Paesi nel prossimo decennio, in quanto l’adozione dell’IA ha effetti pervasivi che toccano quasi tutti i settori economici, gli ambiti sociali e quelli della sicurezza. L’IA in effetti mette in moto cambiamenti ad ampio raggio e profondi con una rapidità prima sconosciuta e con rischi gravi per i paesi che restano indietro. L’Italia, al pari degli altri paesi avanzati, si trova a una svolta tecnologica fondamentale: deve concentrare su questo tornante i maggiori sforzi se non intende perdere una grande occasione di sviluppo in ogni senso.
















