Il messaggio europeo alla Cina è ormai chiaro, ma continua a mancare la prova che Bruxelles sia pronta a passare dalle parole ai fatti. Bene il repetita iuvant di Macron, ma senza un sostegno esplicito della Germania, gli avvertimenti su dazi e difesa commerciale rischiano di restare politicamente inefficaci
L’op-ed pubblicato l’altro ieri da Emmanuel Macron sul Financial Times sulle relazioni economiche tra Unione europea e Cina non è un esercizio retorico né un intervento estemporaneo. È, piuttosto, un segnale politico calibrato, che anticipa l’intenzione francese di portare il tema degli squilibri macroeconomici globali al centro dell’agenda della presidenza G7 che Parigi assumerà nel 2026. Il messaggio del presidente francese è chiaro: l’Europa vuole spingere Pechino ad avviare una riflessione seria sulla sostenibilità di un modello di crescita ancora fortemente sbilanciato sull’export.
Il problema è che difficilmente questa strategia produrrà l’effetto sperato. Il testo di Macron combina un linguaggio conciliante — “mettere tariffe e quote sulle importazioni cinesi sarebbe una risposta poco collaborativa” — con avvertimenti espliciti sull’uso di strumenti di difesa commerciale, inclusi dazi e misure anti-coercizione. Una dialettica già vista, che rischia di risultare poco credibile agli occhi di Pechino se non accompagnata da azioni concrete.
Un messaggio simile era stato recapitato appena pochi mesi fa dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che al summit Ue-Cina di luglio aveva parlato apertamente di un “inflection point” nei rapporti bilaterali a causa delle sovra-capacità industriali cinesi. Da allora, tuttavia, l’Unione ha continuato a segnalare la possibilità di intervenire senza dimostrare di essere davvero pronta a farlo. Per Pechino, avvertimenti ripetuti senza follow-up operativo non modificano il calcolo strategico.
È questo il nodo centrale che indebolisce anche l’iniziativa di Macron. Strategie europee ben intenzionate su sicurezza economica, de-risking e diversificazione delle materie prime critiche non sono sufficienti a impressionare la leadership cinese. I ritardi accumulati su dossier chiave — dall’Industrial Accelerator Act al Cybersecurity Act — mostrano quanto sia difficile per l’Uew trovare un consenso interno su temi sensibili come il local content, il condizionamento degli investimenti esteri diretti e il trattamento dei fornitori ad alto rischio nei settori strategici, in particolare nelle rinnovabili. Tutti elementi che Macron richiama nel suo op-ed, ma che restano largamente incompiuti sul piano normativo.
Come fa notare Noah Barkin, esperto dei rapporti di Cina-Ue di Rhodhium Group e Gmf, colpisce che il presidente francese abbia sentito il bisogno di pubblicare un intervento così articolato dopo aver già trasmesso lo stesso messaggio direttamente a Xi Jinping, durante la recente visita a Pechino, e averlo ribadito in una successiva intervista a Les Echos. La sensazione è che Macron ritenga — probabilmente a ragione — che il suo avvertimento non sia stato recepito con la dovuta attenzione.
Ma il vero problema non è la mancanza di chiarezza del messaggio francese. È l’assenza di una dimostrazione credibile di unità europea. Finché non arriverà una presa di posizione netta da parte della Germania, le parole di Parigi e Bruxelles continueranno a sembrare parziali. Per Barkin, serve una dichiarazione esplicita del cancelliere Friedrich Merz sulla disponibilità di Berlino a sostenere una linea più assertiva dell’Ue, che sarebbe il segnale più efficace per Pechino.
Il viaggio di Merz in Cina, atteso tra febbraio e marzo, rappresenterà dunque un passaggio cruciale. Fino ad allora, le minacce europee resteranno sospese tra intenzione e realtà. Senza il pieno allineamento tedesco, il rischio è che Macron e von der Leyen continuino a parlare a vuoto — e che Pechino continui a non ascoltare.
















