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The Teacher, non c’è pace tra gli ulivi. La recensione di Ciccotti

La palestinese Farah Nabulsi con “The Teacher” (id., 2023-25) ci mostra in una sola storia le tre colonne del vivere in pace: educazione, perdono, sacrificio. Un messaggio cristiano da una talentuosa regista musulmana

Se non avete fatto in tempo a vederlo, correte a recuperare The Teacher (id., 2023), presentato al 43° Torino Film Festival (2025), e da una decina di giorni in distribuzione italiana: un inno lirico alla libertà, al perdono.

La regista anglo-palestinese Farah Nabulsi (classe 1978), al suo primo lungometraggio (dopo il kafkiano The present, 2020, un corto vincitore di diversi premi, incluso il prestigioso Bafta), ci spiega cosa accade nei territori occupati della Cisgiordania. Soprattutto sa raccontare, con essiccato realismo, la violenza di certi coloni, la durezza delle istituzioni israeliane pronte a dar esecuzione all’abbattimento di abitazioni dei palestinesi, e il “naturale” (ma inutile) diritto alla vendetta che scatta in chi è oppresso, in chi ha subito un assassinio di un familiare, quando la giustizia ufficiale (quella di alcuni tribunali israeliani, non di tutti) non condanna un palese colpevole.

Al centro un insegnante di lingue, Basem (Saleh Bakri: somiglia al nostro Pierfrancesco Favino: movimenti equilibrati e in sottrazione, ma rapido ad accendersi nei momenti di tensione), impegnato nel portare cultura e serenità in una terra martoriata da decenni, da una catena interrotta di soprusi e ingiustizie.

The Teacher evita di cadere nel semplice manicheismo: gli occupanti sono cattivi, gli occupati sono buoni. Tra gli ebrei israeliani vi sono anche attivisti democratici che si battono per la giustizia dei fratelli palestinesi musulmani, come l’avvocatessa Basma, pronta a portare davanti alla Corte un colono che ha assassinato a freddo, con un colpo di mitraglietta, un giovane disarmato (Yacoub), solo perché voleva difendere i suoi alberi d’olivo dall’incendio appiccato dagli stessi coloni (per costringere i poveri proprietari palestinesi a lasciare la loro terra).

Il solitario Basem è un docente preoccupato solo di insegnare con passione le lingue ai ragazzi palestinesi. In silenzio. Sta già pagando i suoi vecchi “errori”, involontari, di marito e padre: anni fa (lo sappiamo grazie a dei flashback), portando suo figlio adolescente a una manifestazione antigovernativa, contro il parere della moglie, ne aveva “causato” indirettamente l’arresto, insieme a lui e ai suoi amici, ad opera della polizia israeliana. Durante la loro dura detenzione, il ragazzo prese una polmonite e morì. La moglie non lo perdonò, lo lasciò.

Da allora il suo insegnare ai giovani è una sorta di compensazione per quella famiglia perduta. Soprattutto la cura verso due fratelli, senza padre, Yakub e Adam, del suo villaggio, ora seguiti anche da una educatrice inglese, Lisa (Imogen Poots: equilibrata), inviata dalla sua Organizzazione Internazionale, in Cisgiordania, per il recupero dei ragazzi soggetti all’abbandono scolastico nella fascia dell’obbligo.

Scorre parallelo il dramma di una coppia israelo-statunitense attanagliata dal dramma del loro figlio, soldato dell’Idf, prigioniero in mano ai combattenti palestinesi, in una lunga attesa per il rilascio. Questo innesto non è un semplice bilanciamento: a confronto due famiglie diverse, due mondi lontani, entrambi vivono però lo stesso lacerante dolore, cioè la mancanza di un figlio, qui di un eventuale lutto annunciato.

Il caso vuole che il soldato venga, improvvisamente, “affidato” alle cure, ossia nascosto, per qualche giorno, presso la casa del professore, che non può opporsi alla richiesta dei resistenti palestinesi. Egli ha cura del prigioniero, come gli è stato comandato, facendolo “mangiare bene”, poiché un giorno sarà necessario scambiarlo con palestinesi reclusi nelle prigioni israeliane. E mentre se ne prende cura pensa forse al dolore dei suoi genitori, che invece noi vediamo, come testimoni privilegiati del racconto.

L’assoluzione da parte del tribunale dell’assassino di Yacoub – i giudici hanno preso per veri i falsi testimoni che i coloni hanno portato, e non considerate vere le testimonianze di Basem e Adam (Muhammed Abed El Rahman: estremamente convincente), presenti al delitto -, genera un forte senso di vendetta nel cuore trafitto del diciassettenne Adam. Basem non riesce a evitare che il ragazzo, un giorno, si presenti a casa dei coloni con un coltello, ingenuamente. Mentre il colono sta per uccidere il ragazzo, con la sua mitraglietta che porta sempre con sé, come fosse la kippah, sopraggiunge Basem: spara salvando Adam, uccidendo il colono. Prendendosi la colpa e quasi “scontando” la morte di suo figlio: per il desiderio di pace. Adesso Adam realizza come la vendetta non porti da nessuna parte. Ha perso il fratello, ha perso il suo secondo padre che “ha dato la vita” (Basem avrà l’ergastolo) in sacrificio per lui, per un “figlio”.

The Teacher è forse uno de migliori film degli ultimi venti anni sul tema del perdono (insieme a Forgivness, di Ian Gabriel, 2014: lì siamo in Sud Africa), senza dimenticare che le ingiustizie vanno condannate. Una storia inaspettatamente neo-testamentaria: “Ama il tuo prossimo come te stesso”.

Il racconto di Nabulsi raggiunge una equilibrata suspense intrecciando storie parallele di vite stroncate, o appese a un filo, ma riannodate dalla speranza (per il giovane Adam; per il soldato dell’Idf che non è maltrattato e un giorno sarà liberato): un canto lirico in cui la condanna per gli oppressori non sceglie mai toni aggressivi (anche la ruspa che abbatte la casa della vedova madre di Yacoub, Adam e un’altra sorellina: lo fa con violenza ma senza la facile drammatizzazione).

Una regia antidrammatica, e per questo scavata, come nel raccontare la morte di Yacoub: vediamo il ragazzo, portato a spalla tra gli ulivi dai soccorritori, ora posto sul nudo suolo, solo in campo medio: nessun primo piano. La madre, giunta dal figlio, è presa di spalle, si china su Yacoub: inizia a gridare riempiendo di dolore tutta la vallata. Insieme a lei pare gridino il loro strazio anche gli ulivi in fiamme: quattro tronchi lacerati ardono, come giganti ceri a olio, sentinelle di lutto. La camera rimane, in forma di rispetto, a quaranta metri dalla scena. A noi immaginare il volto deformato dallo strazio della madre in ginocchio sul corpo esanime del figlio; i volti pietrificati di Basem e Adam, in piedi, intorno a Yacoub, poco prima scattante e zampillante di vita.


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