Dalla sua residenza di Mar-a-lago, il presidente Usa ha annunciato una nuova iniziativa per rilanciare la potenza navale americana. Corazzate armate di missili nucleari, nuove navi e nuove collaborazioni con le industrie alleate rappresentano la ricetta dell’amministrazione Trump per dominare i mari del futuro. Una scommessa ad alti livelli, che guarda esplicitamente alla partita con Pechino e al futuro degli Stati Uniti come superpotenza militare globale
Una flotta rinnovata, capace di schierare le navi più potenti di sempre e di riportare la Marina statunitense ai fasti di un tempo. Questo è il piano dell’amministrazione Usa per rilanciare la propria industria cantieristica e mandare un messaggio alla Cina e agli Alleati. L’iniziativa Golden Fleet, annunciata a Mar-a-lago nei giorni scorsi e immediatamente corredata di sito internet dedicato, promette di rilanciare al contempo l’industria nazionale e la potenza navale statunitense entro il prossimo decennio. Ma forse non è tutto oro quel che chiami “Golden”.
Detto, fatto
In occasione del suo (re)insediamento alla Casa Bianca lo scorso gennaio, Donald Trump aveva dedicato una parte del suo discorso al tema della cantieristica. L’industria navale americana attraversa ormai da anni una fase di crisi profonda, principalmente caratterizzata da ritmi produttivi sotto le aspettative, ritardi nelle consegne, obsolescenza degli impianti e mancanza di forza lavoro specializzata.
Ciò va a sommarsi allo stato di indecisione cronica della US Navy riguardo il futuro della propria force structure. Negli ultimi anni più di un programma è stato soppresso perché ritenuto – letteralmente – un buco nell’acqua, dalle Littoral combat ships (Lcs) ai cacciatorpediniere classe Zumwalt (prodotti in appena tre esemplari), senza parlare della vera e propria crisi del procurement riguardo il futuro caccia imbarcato di sesta generazione – ancora noto solo come FA/XX –, la cui gara d’appalto assume sempre più i tratti di una neverending story. Nel corso dell’ultimo anno, tra le altre cose, Trump si è ripetutamente scagliato contro il ridimensionamento delle navi da guerra americane, lamentando come una volta gli Stati Uniti costruissero navi di grandi dimensioni, “più belle” e armate di tutto punto. In altre parole, le cosiddette Battleship, assimilabili alla definizione italiana di Corazzata. Ora, dimensioni e armamento sono proprio al centro di quella che, secondo i piani, diventerà la nuova punta di diamante delle forze navali americane: le corazzate classe Trump.
La Trump class
La nuova classe di vascelli che guiderà la Golden Fleet porterà dunque il nome di Trump stesso. Ciò non significa che verrà varata una USS Trump, ma che la categoria di navi – e non i singoli vascelli – porterà il nome del presidente, analogamente alle superportaerei di classe Gerald R. Ford. Delle due navi già annunciate (su un totale previsto di 20-25), si sa ad esempio che la prima verrà varata con il nome di USS Defiant. Quanto alla nave da guerra in sé, parliamo di un vero e proprio Golia.
Tonnellaggio stimato da 30mila a 40mila tonnellate (più del doppio delle Zumwalt), lunghezza di circa 260 metri (quasi quanto una portaerei) e un arsenale di armamenti impressionante, tra cui 128 celle di lancio verticale (Vls) per missili di varia tipologia, 12 celle per il lancio di missili presumibilmente ipersonici, armi laser, un cannone a rotaia (railgun), artiglieria sovraponte, contromisure anti-drone e persino sistemi di lancio per missili da crociera equipaggiati con testate nucleari.
Non sono ancora state rilasciate informazioni concernenti alimentazione e propulsione, ma viste le specifiche altamente energivore dei sistemi imbarcati non si può escludere l’opzione dell’alimentazione nucleare, magari con mini-reattori di nuova generazione. Sul piano del ruolo operativo, la US Navy parla di un assetto pensato per proiettare potenza offensiva a lungo raggio, contribuire alla difesa aerea integrata e fungere da snodo di comando e controllo. A tal proposito, parrebbe che le classi Trump verranno designate come ammiraglie (flagship) della flotta americana, designazione che dal 1945 a oggi era stata riservata unicamente alle portaerei nucleari.
Una mossa (anche) industriale?
È indubbio che, al di là degli annunci concernenti la forza e il prestigio della Marina, la Golden Fleet Initiative rappresenti, nei piani dell’amministrazione, il grimaldello con cui forzare il rilancio della cantieristica a stelle e strisce. Annunci talmente imponenti sul piano quantitativo e qualitativo costituiscono infatti una garanzia di impiego a lungo termine per l’industria, la quale esita a mettere in campo di tasca sua gli investimenti necessari a rilanciare la produzione. Questo anche a causa dei summenzionati dietrofront della Marina sulle specifiche tecniche, che hanno scombinato più di un piano industriale. Ne sa qualcosa Fincantieri, il cui contratto per la realizzazione delle fregate classe Constellation è stato “rimodulato” a causa dei ritardi nelle consegne. Ritardi che però hanno forse più a che fare con le continue modifiche al progetto-base richieste dalla US Navy che dall’effettiva capacità del gruppo. Diversamente, non si spiegherebbe perché negli impianti italiani di Fincantieri i ritmi di costruzione siano in aumento da anni.
Built in America, but with others
Anche ammesso che un programma così ambizioso riesca a convincere l’esitante industria cantieristica americana a mettere mano al portafogli, resta il nodo delle competenze. Decenni di lento declino e una competizione sempre più serrata con l’industria navale cinese – specie in materia di cantieristica civile – hanno lasciato gli shipyards Usa a corto di ingegneri e tecnici specializzati. Da qui la necessità dichiarata da Trump di coinvolgere nel programma alcuni alleati selezionati, come la Corea del Sud. Beninteso, il piano prevede che i posti di lavoro che verranno creati da questo sforzo dovranno essere americani, tuttavia il dato che emerge è che – almeno per ora – Trump non intende chiudere la porta ai partner strategici.
Un cambio di dottrina radicale
Sul piano prettamente militare, l’iniziativa Golden Fleet va in netta controtendenza rispetto a quella che fino a oggi era l’idea dei pianificatori strategici Usa. Negli ultimi anni, la US Navy si è mossa verso una struttura della flotta distribuita, vale a dire una forza navale composta da tanti assetti di tonnellaggio medio-basso. La ragione è ovvia: una forza numericamente più consistente serve a bilanciare i numeri – in costante crescita – della Marina dell’Esercito popolare di liberazione (Plan) in un teatro operativo vastissimo quanto quello indo-pacifico. Requisito indispensabile per proteggere i preziosi gruppi portaerei che (almeno fino a oggi) rappresentano il nerbo centrale delle forze navali americane. Queste riflessioni non sono state però completamente accantonate, tant’è che i piani prevedono il varo di nuove classi di fregate che, oltre ad aggiungere massa, dovrebbero fornire la necessaria protezione aerea e sottomarina anche alle future Battleship.
C’è poi un aspetto cruciale che riguarda la previsione di dotare le classe Trump di missili equipaggiati con testate nucleari. Abitualmente, il braccio marittimo della deterrenza strategica è rappresentato dai sottomarini (i cosiddetti Ssbn), ai quali è affidato il compito di minacciare in qualsiasi momento una ritorsione nucleare, facendo leva sulla loro capacità di nascondersi negli abissi anche per lunghi periodi di tempo. Al contrario, la posizione di una grande nave di superficie come la futura USS Defiant sarà monitorata costantemente dai satelliti Isr cinesi dal momento stesso in cui essa prenderà il mare. Dunque, è lecito supporre che, più che esercitare una deterrenza strategica, le battleship nucleari rappresenteranno dei deterrenti tattici, pensati per dissuadere o rispondere ad attacchi contro le navi stesse o ai gruppi navali nel loro complesso. Si tratta di un cambiamento radicale per una forza navale che negli ultimi ottant’anni ha strutturato la sua composizione interamente intorno alla protezione degli assetti portaerei e degli stormi imbarcati. Se nel 1993 Bill Clinton affermava che, in caso di emergenza, chiedesse subito dove si trovasse la portaerei più vicina, adesso il segretario alla Marina John Phelan sostiene che “quando ci sarà un conflitto, ci porremo due domane: dov’è la portaerei e dov’è la corazzata?”.
Una scommessa ad alti livelli
Due sono i principali campanelli d’allarme rispetto alla flotta dorata di Trump: l’effettiva utilità militare e il rischio industriale. Gli analisti militari avvertono che, sebbene più maestose, navi da guerra di grosso tonnellaggio e pesantemente armate rappresentano bersagli facili, tanto da tracciare quanto da affondare, soprattutto se si considera che gli odierni armamenti anti-nave (aerei e sottomarini) sono pensati per ingaggiare fortezze galleggianti come le Ford, il cui displacement si aggira intorno alle 100mila tonnellate.
Inoltre, concentrare una simile quantità di armamenti avanzati su un singolo vascello rischia di lasciare il resto della flotta con nessun’altra opzione che la ritirata in caso di affondamento della flagship. Ci sono poi i dubbi riguardo le tempistiche e i costi. Oltre alle battleship, la Golden Fleet comprenderà – stando a quanto affermato da Trump – nuove fregate, nuove navi agili e una nuova classe di portaerei (nonostante le classe Ford siano appena all’inizio del loro ciclo di vita). Non si hanno ancora stime ufficiali relative ai costi dell’intero programma, ma un rapido esame degli obiettivi dichiarati porta ad aspettarsi svariate decine – se non centinaia – di miliardi di dollari tra ricerca e sviluppo, progettazione ed effettiva costruzione.
Un simile programma necessiterà infatti di anni per andare a regime, e gli analisti non escludono che una futura amministrazione potrebbe decidere di cancellare tutto, soprattutto se i costi dovessero levitare in itinere come in passato. Se così dovesse accadere, non solo la US Navy si ritroverebbe al punto di partenza — peraltro con una flotta monca e dalla struttura eccessivamente eterogenea –, ma anche il bilancio federale potrebbe uscirne pesantemente penalizzato.
Come leggere la mossa
L’aggettivo “Golden” non è l’unica cosa che questo piano condivide con il Golden Dome, lo scudo missilistico spaziale su cui gli Stati Uniti lavorano da mesi. Entrambi i programmi, nei fatti, rappresentano la trasposizione materiale del principio di “Peace through strength” su cui l’amministrazione Trump ha incentrato il proprio focus strategico. L’obiettivo, dichiarato palesemente e a più riprese dalla Casa Bianca, è quello di garantire che le Forze armate Usa rimangano l’esercito più potente del mondo. In questa ottica, se il Dome rappresenta lo scudo che proteggerà il mainland americano da ogni minaccia, la Fleet costituisce la lancia che permetterà di continuare a proiettare potere ben oltre l’emisfero occidentale.
(Foto: www.goldenfleet.navy.mil)
















