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Cosa significa la mossa pakistana in Libia per l’Indo-Mediterraneo

La Libia non ha bisogno di un nuovo patrono armato. Il Pakistan non ha bisogno di un nuovo conflitto. L’Europa non ha bisogno di una potenza nucleare islamica instabile ai propri confini. Ciò che serve è moderazione, prima che la ricchezza petrolifera torni ancora una volta a essere carburante di guerra anziché fondamento di pace. L’analisi di Vas Shenoy

In un significativo sviluppo della diplomazia militare tra Asia meridionale e Nord Africa, Pakistan e le forze allineate alla fazione orientale della Libia hanno formalizzato un accordo di cooperazione nel settore della difesa di valore eccezionalmente elevato. L’intesa, negoziata a Bengasi durante un incontro tra Asim Munir e i vertici dell’Esercito Nazionale Libico guidato da Khalifa Haftar, avrebbe un valore compreso tra i 4 e i 4,6 miliardi di dollari, configurandosi come una delle più grandi transazioni di armamenti mai concluse dal Pakistan, secondo quanto riportato da Reuters. In base alle informazioni disponibili, l’accordo prevede la vendita di equipaggiamenti militari, inclusi caccia e aerei da addestramento, oltre a una cooperazione strategica più ampia che comprende addestramento, rafforzamento delle capacità operative e, potenzialmente, produzione nel settore della difesa.

Secondo Reuters, i funzionari pakistani sostengono che l’accordo, negoziato nell’arco di circa due anni e mezzo, non violi l’embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite alla Libia nel 2011. Tale embargo era stato concepito per impedire l’ulteriore militarizzazione di un Paese già profondamente frammentato tra amministrazioni rivali e gruppi armati concorrenti. Tuttavia, anche qualora l’intesa fosse strutturata per muoversi in aree giuridicamente ambigue, le sue conseguenze politiche e strategiche risultano ben più difficili da circoscrivere. Un coinvolgimento militare esterno di questa portata rischia infatti di aggravare il conflitto interno libico, indebolire le norme multilaterali e compromettere sforzi di mediazione internazionale già estremamente fragili.

L’iniziativa pakistana in Libia deve essere letta all’interno di un quadro strategico più ampio. Islamabad sta cercando di diversificare le proprie partnership nel settore della difesa ed estendere la propria influenza oltre l’Asia meridionale e il Golfo, promuovendo la propria industria militare — inclusi sistemi come il caccia JF-17, sviluppato congiuntamente — come alternativa ai fornitori occidentali. Al tempo stesso, il comparto della difesa pakistano rimane strettamente intrecciato con Cina, estendendo di fatto la profondità strategica cinese attraverso la cooperazione militare con la Libia orientale controllata da Haftar. Questo allineamento introduce un ulteriore livello di competizione tra grandi potenze in un ambiente di sicurezza mediterraneo già fortemente congestionato.

Il segnale politico che emerge da Islamabad è inequivocabile. Il Pakistan sta proiettando le proprie forze armate, più che la propria economia, come principale strumento di leva internazionale. Parallelamente, emergono indiscrezioni su un possibile coinvolgimento di truppe pakistane in un futuro quadro di “peacekeeping” a Gaza sotto guida statunitense, ipotesi che suscita forte preoccupazione in Israele alla luce della storica postura anti-israeliana e spesso antisemita dell’establishment militare pakistano, nonché della presenza sul territorio pakistano di numerosi gruppi islamisti estremisti.

Questa proiezione avviene in un momento in cui l’economia civile pakistana resta sotto forte pressione, dipendente da programmi di salvataggio finanziario e ristrutturazioni del debito. Sotto la leadership di Munir, l’apparato militare afferma la propria centralità all’estero, comunicando a interlocutori interni ed esterni che la fragilità fiscale non limita la capacità del Paese di proiettare potere. Non si tratta di diplomazia economica, bensì di monetizzazione della capacità militare.

La storia offre un chiaro monito. Gli Stati che tentano di compensare debolezze economiche attraverso l’esportazione di armi e servizi di sicurezza tendono a scivolare verso una logica mercenaria, in cui l’instabilità diventa una fonte di reddito e il conflitto un’opportunità commerciale. L’establishment militare pakistano introduce ulteriori elementi di rischio: da tempo coltiva posizioni ideologicamente marcate sui conflitti mediorientali, in particolare su Israele, con una retorica che spesso oltrepassa la critica politica per assumere toni apertamente antisemiti. Anche in assenza di un dispiegamento diretto oltre la Libia, l’attuale coinvolgimento segnala la disponibilità del Pakistan a testare una proiezione expeditionary in teatri lontani dal proprio immediato vicinato.

Le implicazioni per l’Italia e per l’Europa meridionale sono particolarmente rilevanti. La Libia si colloca direttamente sul fianco meridionale italiano ed è centrale per le preoccupazioni europee in materia di sicurezza energetica, migrazione e criminalità organizzata. Il sostegno pakistano a Haftar contribuisce a un’ulteriore militarizzazione di Bengasi e al consolidamento dell’architettura di sicurezza della Libia orientale, attirando contestualmente Pakistan e Cina sempre più vicino al bacino mediterraneo. Se combinato con il ruolo già radicato della Turchia in altre parti del Paese, il risultato è una rete sempre più fitta di attori militari esterni i cui interessi non coincidono con gli sforzi europei di stabilizzazione. La morte, avvenuta pochi giorni dopo l’annuncio dell’accordo, del capo di stato maggiore dell’esercito libico riconosciuto a livello internazionale, il generale Mohammed Ali Ahmed al-Haddad, in un incidente aereo in Turchia, ha ulteriormente evidenziato la delicatezza degli equilibri di potere interni. Si profila così un asse turco-pakistano, entrambi Paesi sunniti con una forte influenza della Fratellanza Musulmana, una storia di ambiguità nei confronti dell’estremismo islamico e solidi legami con la Cina. La Turchia, in particolare, persegue da tempo ambizioni di influenza in Medio Oriente e in Africa, lavorando per rafforzare la propria presenza dalla Somalia alla Libia.

L’iniziativa pakistana potrebbe inoltre essere incoraggiata da Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, entrambi tradizionali sostenitori di Haftar. Una visita programmata del presidente emiratino Mohammed bin Zayed a Islamabad rafforza l’impressione che Munir si attenda un ritorno politico e strategico per il suo nuovo impegno in Libia, così come il recente riconoscimento ricevuto dall’Arabia Saudita per il rafforzamento delle relazioni bilaterali. Oltre alla progressiva mercenarizzazione delle forze armate, Munir ha inoltre promosso con forza l’immagine del Pakistan come “potenza nucleare islamica”, una narrativa indirettamente alimentata dalle dinamiche regionali seguite all’attacco israeliano contro Hamas a Doha.

Una crescente militarizzazione aumenta il rischio di nuovi scontri intorno alle infrastrutture petrolifere, intensifica le pressioni migratorie verso l’Europa e aggrava le già precarie condizioni di sicurezza nel Mediterraneo centrale.

Le preoccupazioni vanno ben oltre il semplice equilibrio militare. Le forze armate pakistane e i servizi di intelligence (ISI) non sono attori neutrali. Sotto Munir, la retorica islamica all’interno dell’establishment militare si è rafforzata, mentre il coinvolgimento storico del Pakistan in guerre per procura in Afghanistan, il sostegno a gruppi terroristici nel subcontinente indiano e i processi di islamizzazione in Bangladesh sono ampiamente documentati. I legami con reti criminali e del narcotraffico transnazionale complicano ulteriormente il quadro. Il loro ingresso in Libia rischia di alterare le dinamiche della criminalità organizzata in Nord Africa, con effetti diretti di ricaduta sull’Italia e sull’Europa.

La crisi libica, tuttavia, non deriva da una carenza di armi. Essa nasce da un profondo squilibrio tra ricchezza petrolifera, legittimità politica e potere militare. Allineandosi con la fazione che già domina le risorse petrolifere attraverso la forza piuttosto che il consenso, il Pakistan rischia di cristallizzare questo squilibrio, indebolire le strutture di governance sostenute dalle Nazioni Unite ed esportare instabilità direttamente verso il confine meridionale europeo.


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