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Approccio degasperiano alla Difesa e “carta” Draghi. Il ruolo chiave dell’Italia in Ue visto da Fabbrini

Un’Europa messa alla prova dal ritorno di Trump, chiamata a ripensare sicurezza, difesa e autonomia strategica. Il docente e analista Sergio Fabbrini indica nella guerra e nella minaccia russa la priorità assoluta, denuncia il vuoto di leadership dell’Ue e vede nella difesa e nell’alta tecnologia i motori di un’integrazione selettiva. L’Italia può giocare un ruolo decisivo, mentre l’unica guida credibile per un federalismo pragmatico resta Mario Draghi

Il ritorno del presidente Usa, Donald Trump sulla scena globale non è solo un fatto americano: è uno stress test per l’Unione europea, costretta a interrogarsi sulla propria sopravvivenza strategica. Guerra in Ucraina, minaccia russa, fragilità della governance comunitaria e assenza di una vera leadership si intrecciano in un passaggio che impone scelte radicali. Sergio Fabbrini, professore di Scienza politica e tra i più attenti analisti dei processi di integrazione europea, legge questo tornante storico senza sconti: la difesa può diventare il motore di una nuova Europa, ma solo se si avrà il coraggio di superare veti, ambiguità e timidezze politiche.

Professor Fabbrini, quanto il “fattore Trump” condiziona il modo di ragionare sull’Europa oggi?

Lo cambia in profondità. Siamo di fronte a una personalità straordinaria, nel senso letterale del termine, che impone una discontinuità strutturale. Ragionare sull’Europa nell’epoca trumpiana significa prendere atto che non possiamo più dare per scontata la protezione americana. Non sappiamo se ci sarà una pace in Ucraina, ma sappiamo con certezza che il tema della guerra, della minaccia russa e della sicurezza continentale sarà il primo problema politico da affrontare.

Qual è, dunque, la vera agenda politica dell’Unione europea?

Il primo punto è individuare modalità efficaci per garantire la sicurezza del continente indipendentemente da Trump. Non credo che rivedrà le sue posizioni: la sua spinta è quella di abbandonare l’Europa. Questo ha già prodotto spinte alla destrutturazione dell’Unione, ma anche una reazione opposta, quella della cosiddetta coalizione dei Volenterosi.

Una coalizione che va oltre i confini dell’Unione.

Esattamente. Ed è inevitabile. Paesi che non fanno parte dell’Ue, a partire dal Regno Unito, sono cruciali. Londra ha un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu ed è un attore indispensabile. Si sta configurando una sorta di “Schengen della Difesa”, una cooperazione rafforzata che pone un problema politico centrale: come questa coalizione si rapporterà all’Unione europea.

In questo quadro rientra anche il tema della deterrenza nucleare?

Sì, ed è un nodo delicatissimo. L’Europa dispone di una deterrenza nucleare che va modernizzata e messa a disposizione della coalizione dei Volenterosi. Anche qui siamo di fronte a un’integrazione selettiva: non tutti vogliono partecipare, non tutti accettano di fare un passo in avanti.

Chi si oppone?

C’è un’opposizione interna molto chiara. Paesi schierati a favore della Russia, come l’Ungheria di Orbán, ma anche la Repubblica Ceca, tra gli altri. Un gruppo di Stati che rifiuta il superamento del diritto di veto. Lavorano sistematicamente per ostacolare il processo di integrazione. È una minoranza, ma molto attiva.

Questo porta al tema della leadership europea.

Che è drammatico. Viviamo una fase che imporrebbe scelte di grande respiro, ma siamo di fronte a leader che non hanno il coraggio di farle. Ursula von der Leyen è molto legata al suo Paese e non ha una vera idea europea dei problemi. Il deficit di leadership è enorme.

Esiste un’eccezione a questo quadro?

L’unico vero leader europeo, per come la vedo io, è Mario Draghi. La sua idea è quella di un federalismo pragmatico: forme di aggregazione flessibili che permettano di fare passi avanti concreti, a partire dal tema fiscale e dal debito europeo.

Eppure l’agenda Draghi sembra essere rimasta sostanzialmente lettera morta.

Di fatto è stata disattesa. Solo l’11% del suo rapporto è stato accolto dalla Commissione. E questo mentre è in corso una riorganizzazione dei sistemi internazionali sul piano tecnologico. L’Europa oggi non ha un’economia in grado di competere all’esterno del proprio perimetro.

La tecnologia come secondo pilastro strategico.

Assolutamente. L’alta tecnologia è il settore chiave e strategico. Non possiamo lasciare il suo controllo ad americani e cinesi. Qui è in gioco non solo la competitività economica, ma il funzionamento stesso delle democrazie. Se non costruiamo un modello europeo sull’alta tecnologia, saremo soggiogati.

Cosa tiene insieme difesa e tecnologia?

Un sistema fiscale europeo che garantisca risorse autonome per investimenti collettivi. Senza questo, ogni progetto è destinato a fallire. Oggi Ursula ha promosso un’industria della difesa su base sostanzialmente nazionale, che va in direzione opposta.

Che ruolo può giocare l’Italia in questo scenario?

Un ruolo enorme. L’Italia è il più piccolo dei grandi e il più grande dei piccoli: una posizione ideale per favorire la sovranazionalizzazione della difesa e della tecnologia. Potrebbe esercitare un ruolo degasperiano.

Cosa intende per “ruolo degasperiano”?

Un governo capace di aprirsi all’opposizione per costruire un progetto di difesa europea con forti elementi sovranazionali. Torniamo idealmente al 1952: una 28esima unità di difesa internazionale, con comando centrale e controllo politico delle istituzioni comunitarie.

Un’occasione storica, dunque.

Sì, e dobbiamo uscire dalla paura di essere sommersi da francesi e tedeschi. Molto dipenderà dalla politica. Personalmente, non vedo alternative credibili: Mario Draghi dovrebbe guidare questa fase, anche alla guida della Commissione europea.


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