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#Usa 2012 Il bilancio del Presidente

 
 
Solo in quattro casi dal dopoguerra in poi un presidente americano in carica non è stato riconfermato. Se, quindi, osserviamo i precedenti storici Barack Obama dovrebbe essere tranquillo. Tuttavia il bilancio di questi quattro anni di presidenza si presenta tra luci e ombre, soprattutto per quanto riguarda l’economia, che sarà determinante più del passato nella corsa alla Casa Bianca 2012. La crisi finanziaria ed economica internazionale ha influito pesantemente in tutte le elezioni nel mondo occidentale a cominciare dal 2008, ed è difficile pensare che non lo faccia anche negli Stati Uniti.
 
I freddi numeri non sembrano aiutare il presidente. Nel 2011 il bilancio federale statunitense si è chiuso con un deficit di 1.299 miliardi di dollari, portando il debito pubblico a quota 14.764 miliardi. L’ultimo pareggio di bilancio si è registrato nel 2001, da allora si è sempre chiuso con un deficit, stratificando il passivo nello stock del debito pubblico. Se nel 2008 questo ammontava al 69,7% del Pil, il 2011 si è chiuso con un debito pari al 98,7%, mentre si prevede che per il 2012 raggiunga il 104,8%. La disoccupazione è passata da 5,8% del 2008 all’8,1 del 2011. Solo la crescita economica è tornata in positivo, passando da -0,3% a +2,1%, un dato comunque molto rilevante se guardiamo alle difficoltà delle economie occidentali nel complesso e alla capacità statunitense di invertire la tendenza. Obama punterà sulla ripresa.
 
In questo campo, dopo il varo di un “pacchetto” di stimolo dell’economia reale del valore di 787 miliardi di dollari, Obama si è concentrato soprattutto sulla riduzione del deficit. Nell’aprile 2010 ha creato la Commissione nazionale per la responsabilità e la riforma fiscale, una commissione bipartisan, con il compito di studiare possibili misure di riduzione della spesa pubblica e di risanamento delle finanze del Paese. Nel mese di novembre 2010 dello stesso anno la Commissione predisponeva un piano di intervento drastico, ma la proposta non superava il voto dei suoi stessi membri, facendo così registrare un nulla di fatto, principalmente a causa del rifiuto da parte dei repubblicani a discutere qualsiasi aumento delle tasse.
 
Nel corso del 2011, divenne evidente che il governo federale stava raggiungendo il livello di indebitamento massimo concesso dalla legge prima del termine dell’anno fiscale (30 settembre 2011). Tuttavia le divergenze tra i democratici e i repubblicani, che detengono la maggioranza al Congresso, su come ridurre il deficit contestualmente all’aumento del tetto sul debito rischiavano di far precipitare il Paese nel default, se non fosse stato trovato un accordo entro il 2 agosto (data stimata del default). Un primo accordo veniva chiuso su un aumento del tetto di indebitamento di 900 milioni, a fronte di una riduzione delle spese più alta (917 milioni in 10 anni), mentre si rinviavano le decisioni su ulteriori tagli alla Commissione bipartisan, ma l’accordo non veniva trovato. La questione dei tagli di bilancio è rimasta quindi un argomento forte della campagna elettorale 2012.
 
Ma Obama ha cercato altre vie per contrastare la crisi. A luglio del 2010 è entrato in vigore il Dodd-Frank Wall Street reform and consumer protection act, volto a rafforzare la regolamentazione pubblica sul settore finanziario, mentre nel settembre 2011 è stata la volta dell’American jobs act, un ulteriore pacchetto di stimolo da 447 miliardi.
 
Sul piano interno il cavallo di battaglia di Obama è la nota riforma sanitaria. Varata nel 2010, la riforma ha esteso la copertura assicurativa a 32 dei circa 50 milioni di cittadini americani che ne sono privi, per un costo complessivo stimato dal Congressional budget office in 940 miliardi: un successo in ottica democratica, un vero tradimento dei valori americani per i repubblicani più convinti. Quasi paradossalmente uno dei punti di storica debolezza dei democratici, la politica estera, sembra offrire argomenti a favore. Obama ha tenuto fede alle proprie promesse elettorali: cattura (e uccisione) di Osama Bin Laden; ritiro dall’Iraq; avvio del ritiro dall’Afghanistan.
 
Nel complesso, la strategia dell’amministrazione Obama è stata caratterizzata da due orientamenti: la riduzione del coinvolgimento militare diretto (dettato anche dalla necessaria razionalizzazione delle spese) e lo spostamento verso la regione dell’Asia-Pacifico, in un’ottica di contenimento della Cina. A questo scopo, è in atto uno sforzo statunitense basato tanto sul soft power quanto su una discreta presenza militare, esplicitata dallo spostamento di un contingente semi-permanente di 2.500 unità in Australia.
 
Nell’ottica dello sganciamento dal fronte mediorientale rientra anche lo sforzo di apertura nei confronti del mondo islamico inaugurata dal discorso all’Università del Cairo il 4 giugno 2009. A minare le relazioni tra Washington e il mondo islamico permane però l’eterna questione del conflitto israelo-palestinese. Israele pare sempre più arroccato su posizioni anti-iraniane, mettendo in difficoltà l’amministrazione Obama per quanto riguarda l’ipotesi di una guerra preventiva.
Anche per quanto riguarda i moti della cosiddetta Primavera araba l’amministrazione Obama ha preferito la linea della leadership from behind: ha controllato senza intromissioni l’Egitto, mentre in Libia ha passato il comando alla Nato.
 
Le critiche repubblicane non sono comunque mancate, in particolare sulla linea troppo morbida verso Russia e Cina. Obama avrebbe inoltre trascurato la minaccia che Paesi come Iran e Corea del Nord portano al sistema internazionale, non mostrandosi in grado di rispondere in maniera adeguata alle loro provocazioni. Tuttavia il presidente in carica può certamente vantare almeno un risultato, quello del miglioramento dell’immagine statunitense nel mondo, un Paese che, sotto l’amministrazione Bush, aveva una pessima reputazione internazionale.


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