Skip to main content

#Cossiga Quell’amicizia nata da un accento scozzese

“Com´è possibile che un palermitano parli inglese con un accento scozzese così perfetto”? Nei quasi dieci anni che lo ho frequentato, Francesco Cossiga non è mai riuscito a trovare una risposta a questo suo interrogativo. Lui, proprio lui che aveva una risposta plausibile ed offriva una spiegazione possibile per qualsiasi cosa, dalla strage di Ustica fino a quella della stazione di Bologna fino alla nascita ed alla fine di governi, legislature ed alleanze, non riuscì mai a capacitarsi del fatto che il cronista dell´ANSA incaricato di “seguirlo” e di raccoglierne le infinite dichiarazioni, benché siciliano dalla testa ai piedi, parlasse un inglese con un´inflessione scozzese tale da nasconderne completamente all´ascoltatore le origini.
 
Quel mio accento scozzese, acquisito nel periodo di studi giuridici da me trascorso tra Aberdeen ed Edinburgo, fu la scintilla del rapporto, durato appunto diversi anni, tra me ed il presidente Cossiga. Iniziò tutto una mattina di luglio. Io mi trovavo in sala stampa a Montecitorio, da poco trasferito dalla redazione Esteri a quella Politica dell´ANSA, e lavoravo insieme con una collega assai più esperta di me. Il telefono di redazione squillò. La collega rispose, e improvvisamente sbiancò. Era Cossiga: voleva dettarci una sua dichiarazione. Ma io non lo sapevo ancora. La collega, che era impegnata con un desk pieno di notizie da essere lette e, poi, trasmesse in rete con urgenza, alzò gli occhi e a me, ignaro, urlò senza aggiungere altro: “alza il telefono e continua tu”. Mentre alzavo la cornetta, con un tono ben più mellifluo di quello che aveva appena usato con me, diceva all´interlocutore: “Ecco, un secondo che le passo un bravissimo giovane collega”, e abbassava il suo ricevitore. Fu così che ascoltai per la prima volta quel “pronto” che, da allora, avrei sentito migliaia di volte. E che da due anni, purtroppo, non sento più.
 
Riconobbi subito il mio interlocutore. E sudai freddo, acchiappando al volo un taccuino e una penna per raccoglierne il pensiero. Mentre scrivevo in fretta, mi scappò l´imprecazione che gli scozzesi dicono quando sono in attesa di una buona pinta di birra al pub. “Scusa, come hai detto?” mi chiese, incuriosito, Cossiga. E io: “Niente, niente presidente. Vada pure avanti, la seguo”. Ma lui insisté; “come fai a conoscere questa espressione? Tu non sei italiano”. E io: “Ha ragione, presidente: non sono italiano ma siciliano…”. Ma la mia battuta non lo fece desistere. “Non dire sciocchezze. Questa non è espressione nè da italiano nè da siciliano. Come fai a conoscerla? You must have spent plenty of time in pubs, mate…”, concludeva con il suo inconfondibile accento sardo, percettibile anche nel perfetto inglese con cui conversava tranquillamente perfino di teologia con i raffinati scrittori “Oxbridge” di “The Tablet”. A quel punto io replicai in inglese: “Well, Sir, I have been reading Law for quite a while in Scottish Universities, an activiy which implies a considerable amount of time spent, as you properly said, hanging out in pubs!”. La risposta gli piacque. Mi chiese il mio nome e da dove venissi fuori. “Ti voglio conoscere, Siculo scozzese…”. E riprese, esattamente dal punto dove lo avevo interrotto, la sua dichiarazione che mi dettò fino alla fine.
 
Sembrava tutto finito lì: al mio “Grazie ed arrivederci presidente” lui replicò “arrivederci a prestissimo”. Fu proprio di parola: dopo un paio d´ore me lo sono visto alla porta della sala stampa al braccio di un commesso anziano di Montecitorio il quale mi indicava a lui con il dito. Il presidente mi si avvicinò e mi disse: “Here you are, my young Sicilian friend with a Scottish accent”. Aveva deciso per tutti e due: io ero suo amico.
Un´amicizia di cui sono stato onorato per anni. Anni di dichiarazioni dettate da ovunque ad ovunque su qualsiasi tema dello scibile umano, tanto era assolutamente poliedrico il personaggio; di serate a guardare in tv dibattiti politici; di pizze mangiate davanti alla televisione; di Sante Messe celebrate in salotto la domenica pomeriggio; di viaggi indimenticabili, dalla Catalogna ad un Kosovo presidiato dalle truppe italiane di KFOR solo due giorni dopo un´imboscata ai nostri militari; di telefonate nel cuore della notte ed alle prime luci dell´alba, il cui contenuto andava dall´amichevole “Come stai?” al “notizione”: del tipo “Si è dimesso Siniscalco da ministro dell´Economia” a “Mi dimetto da senatore a vita”.
Anni di confronto, di ascolto, di confidenze e informazioni scambiate e raccolte, di analisi e sintesi di fatti e situazioni. Fino all´ultima telefonata.
 
Lo cercai da Pyongyang, la capitale della Corea del Nord di fatto inaccessibile ai giornalisti, dove seguivo una delegazione di parlamentari italiani in visita. In un´ambasciata occidentale, uno dei pochi posti da cui era possibile comunicare con l´estero senza incappare nella censura del regime nordocoreano, dopo aver trasmesso il mio pezzo a Roma, trovai la possibilità di fare una telefonata; invece di chiamare i miei genitori, cercai lui. Mi rispose al primo squillo e volle che gli raccontassi tutto di quel posto misterioso e nascosto. Avevo a disposizione più o meno tre minuti, compreso il tempo per i convenevoli, e feci uno sforzo di sintesi pazzesco per dirgli il più possibile e trasmettergli il massimo di suggestioni da quel Paese, uno dei pochi che non aveva mai visitato. “Interessante, proprio interessante. Dovrai dirmi di più al tuo arrivo a Roma. Magari in scozzese…”. La linea satellitare cadde quando stavo dicendo un arrivederci che non penso abbia sentito tutto. Non gli ho detto addio: nè quella volta nè dopo. Prima o poi ci ribeccheremo, e magari riparleremo insieme in scozzese.
 
Francesco Bongarrà


×

Iscriviti alla newsletter