Era la sua ultima lezione all’École Polytéchnique e non pensava di essere “entarté” dagli studenti. Perché quella torta in faccia? Ovvio: un uomo di destra, in università, è uno scandalo. In questi giorni, poi, ha avuto la sfrontatezza di pubblicare un’opera in difesa dell’identità nazionale (L’identité malheureuse, Ed. Stock, Paris): proprio mentre i sondaggi mostravano che il primo partito è quello di Marina Le Pen. Giusto fargliela pagare.
Alain Finkielkraut, pur essendo stato un sessantottino militante, ed aver flirtato a lungo con i socialisti, ha poi combattuto contro la sinistra, alla quale attribuisce la colpa maggiore nella distruzione della famiglia (La sagesse de l’amour, 1984), nella perdita della razionalità (La défaite de la pensée, 1987) e nella dissoluzione della scuola (La révolution cuculturelle à l’école, 2000). In nome di una utopia, essa ha tagliato i ponti col passato, di modo che i francesi si sono trovati privi di una identità. “Possiamo ancora essere francesi?”, così il settimanale Le point ha presentato il suo libro, con la foto dell’autore in copertina.
Finkielkraut non usa mezze misure. Il suo amico, Milan Kundera, ha detto di lui: “Un uomo incapace di non reagire alla stupidità e all’ingiustizia, pieno di talento per farsi dei nemici”. Gratificato da sempre con le accuse, anzi con gli epiteti consueti: reazionario, oscurantista, fascista. Il metodo imperituro della cultura di sinistra. Anche perché il suo giudizio sul presidente della Repubblica, Hollande, e sul ministro dell’educazione Peillon non è gradevole: “Incultura militante; parlano il francese come dei bambini”. Una incultura populista, che ha portato alla distruzione dell’identità nazionale, dando in tal modo alla destra la patente di difensori della nazione.
Chi conosce le opere di Finkielkraut sa bene che è un democratico convinto. Nulla ha mai avuto a che fare con la pseudo-destra fascista. Com’è ovvio per il figlio di un ebreo polacco internato e sopravvissuto in un lager hitleriano. La sua cultura è quella laica del liberalismo e della democrazia, che egli, come già Tocqueville, vede quasi distrutta dal prevalere della società di massa, nella quale l’eguaglianza distrugge la libertà. Egli è convinto che il primo compito dell’uomo di cultura sia la difesa della tradizione europea, che ha le sue radici nella Bibbia, nella grecità e nel cristianesimo (scriveva nel suo elogio di Papa Ratzinger, 2005: “contro lo Spirito del tempo ci vuole lo Spirito Santo”).
Per lui la politica della sinistra sulla immigrazione è stata catastrofica. Non ha niente contro i pieds noirs o gli islamici, la loro presenza può anche arricchire la nazione. Non condivide il “pregiudizio etnocentrico”, per cui i valori europei devono essere imposti a tutti. Ecco perché difese il velo liberamente portato dalle donne islamiche. Ma oggi il problema è un altro, è la “tentazione penitenziale”, un “cupio dissolvi” che ha invaso i francesi, essi si vergognano di esserlo e cercano rifugio nella cultura multietnica (“vertige de désidentification”): “siamo divenuti stranieri nella nostra terra; non siamo più una nazione, ma un aeroporto”.
Filkienkraut è certo un conservatore, egli teme che la vera cultura, che è sempre di élite, venga sepolta dall’industria culturale, che sostituisce la lettura con l’interconnessione permanente. Conservatore non già nel senso che guarda indietro, ma che porta avanti una eredità. La si può riassumere nella identità nazionale, che va continuamente riscoperta e rinnovata, come diceva Renan: “Un plebiscito di tutti i giorni”. Perché l’uomo “è prima di tutto un erede” (Burke).
Oggi è molto più necessario che nel passato non dimenticare chi siamo. Mentre l’immigrazione sempre più aumenta, occorre rafforzare l’identità nazionale, farla diventare una “identité heureuse”, un’identità felice, non certo per escludere o combattere gli altri, ma per essere qualcuno e, solo così, capace di dialogo e confronto.
Ciò che egli propone è la linea della destra europea, tanto antifascista quanto anticomunista. Egli si collega ad alcuni pensatori israeliti: Leo Strauss, difensore del diritto naturale, Jacob Talmon, critico della “democrazia totalitaria”, Hans Jonas, con la sua proposta del “principio-responsabilità” contro gli abusi tecnologici, e Hannah Arendt, sconvolta dalle distruttive primavere sessantottesche di California e di Parigi: “Per preservare quanto vi è di nuovo e di rivoluzionario in ogni bambino, l’educazione deve essere conservatrice”.
Oggi, osserva, anche la scuola è telefagica: “Uno scorrere senza fine, tutto si consuma e nulla rimane, l’occhio non legge, ma ingurgita; “not books, but gadgets”, non libri ma oggetti. La chiamano “cultura”, forse perché fa rima con “spazzatura”. Morti i professori, spadroneggiano gli animatori. E’ l’orgia dell’effimero, della corsa senza meta in un mondo “risentito”, incapace di “gratitudine”, che “rispetta tutto per non avere più niente da rispettare” (L’ingratitude, 1999).
Finkielkraut sa che l’eclissi dell’Europa continua e non molto si può fare, ma invita egualmente all’impegno. Nel senso definito da Camus: “La nostra generazione non è più votata a rifare il mondo, deve impedire che vada in sfacelo”.