Fare politica industriale significa avere l’ambizione e la capacità di fare anche politica ambientale. I dossier più complessi all’attenzione di governo e parti sociali riguardano diverse realtà della old economy – Ilva, Carbosulcis, Alcoa e persino Fiat – verso le quali si cerca una non facilissima riconversione green. Aggiungiamo le polemiche che vanno montando a proposito delle aree industriali dismesse o quelle che segnalano un nuovo vento anti-imprese (si vedano le polemiche su nuove esplorazioni off-shore o su grandi impianti di produzione elettrica già esistenti) e si comprende che il pettine ha già raggiunto il nodo. L’Italia può legittimamente scegliere se imboccare la via del disarmo industriale unilaterale oppure tentare di valorizzare il patrimonio delle sue imprese più innovative e sostenibile per essere competitiva sui mercati dentro il contesto europeo ed occidentale.
Europa 2050 e la Green growth strategy dell’Ocse sono già un programma puntuale e concreto ed entrate a pieno titolo nell’agenda Monti di questo governo attraverso il piano per la crescita sostenibile e le misure proposte dal ministro dell’ambiente, Corrado Clini. Una sfida così rilevante, di portata storica, ha bisogno di reggere però su due pilastri. Uno è la continuità politica, la necessità cioè che questo disegno sia condiviso dalle forze politiche e sociali del Paese al di là e anche dopo l’esperienza di questo esecutivo. Il secondo pilastro è costituito dalla necessità di poter correttamente finanziare questo switch-off dall’economia grigia a quella verde. Il primo aspetto richiede un verdetto democratico e quindi un esplicito impegno da parte dei partiti a fare chiarezza sui loro programmi. Il ragionamento su come offrire supporto finanziario agli investimenti green merita invece di essere affrontato subito.
Mentre in Italia si è da poco iniziato a discutere di nuovi strumenti finanziari dedicati allo sviluppo di nuove tecnologie, in Inghilterra è stato avviato un progetto particolarmente ambizioso e interessante. Green Investment Bank è il nome di un istituto finanziario pubblico voluto dal governo del Regno Unito con una dotazione di tre miliardi di sterline di fondi pubblici per finanziare progetti a bassa emissione di anidride carbonica che sarebbero troppo rischiosi o i cui rendimenti sono troppo a lungo termine perché il mercato vi investa. Nella patria del libero mercato e della libera finanza, lo Stato “si fa” una banca. Non deve sorprendere: nella transizione verso una low carbon economy, la mission di GIB è favorire e integrare l’afflusso di finanziamenti privati a progetti nel settore green garantendo un rafforzamento della filiera industriale nazionale e della sua competitività sui mercati esteri.
Si tratta di un soggetto indipendente a capitale pubblico che opera lungo predeterminate “Linee di investimento verdi” quali energie rinnovabili (solo progetti di dimensioni rilevanti collocati sulla frontiera tecnologica e/o ad alto potenziale innovativo); efficienza energetica (interventi nel segmento non-residenziale); Smart grids; trasporto (reti per la ricarica veicoli elettrici, nuove tecnologie); gestione del ciclo dei rifiuti. In Francia, non solo il presidente Hollande ha rilanciato la centralità delle politiche ambientali europee contro i cambiamenti climatici ma, ben più prosaicamente, il governo ha lanciato un piano di ingentissimi investimenti per il settore automobilistico (circa 500 milioni di euro) e destinato proprio alle nuove vetture ecologiche.
Il governo italiano da parte sua ha già avviato un primo positivo esperimento con l’istituzione del Fondo Kyoto, realizzato con la collaborazione fra ministero dell’Ambiente e Cassa depositi e prestiti. Si è trattato di un fondo rotativo per concedere finanziamenti ad un tasso particolarmente vantaggioso (0.5%) per quegli investimenti di imprese e pubbliche amministrazioni volti a ridurre le emissioni di gas serra. E’ stato un successo. La stessa Cdp, poi, gode di strumenti innovativi dal punto di vista del rapporto fra finanza pubblica e politica industriale (pensiamo al Fondo strategico italiano, al fondo italiano d’investimento italiano dedicato alle pmi, alla sgr F2i, al fondo Marguerite, alla riorganizzazione di Sace e Simest).
Gli strumenti e le risorse, anche in Italia, non mancano. Ciò che sin qui è stato deficitaria è stata la visione d’insieme e la decisione di rompere gli indugi scegliendo una prospettiva industriale per l’Italia. Da questo punto di vista, la liberale Inghilterra ha dimostrato di volere e sapere investire in modo significativo e strategico sulla green economy così come, in una chiave più dirigista ma non meno decisa, la Francia. Nel nostro Paese, l´economia verde si presenta ancora come un feticcio da agitare sperando così di risolvere i problemi accumulati in decenni in cui l’industria è stata la grande assente della politica italiana.
Paolo Messa è Consigliere del ministro dell’Ambiente
Articolo pubblicato sul Foglio del 18/09/2012