Un lungo reportage del New York Times la settimana scorsa ha lanciato l’allarme: “Lobbying Bonanza as Firms Try to Influence the European Union” (lo trovate Qui).
La tesi del quotidiano è semplice. Le grandi industrie americane sbarcano sui mercati europei usando come testa di ponte la capitale dell’Unione. Lo fanno attraverso schiere di lobbisti, inquadrati in grandi studi legali (sempre più spesso la sede di lavoro dei lobbisti freelance), che sfruttano le regole europee più favorevoli, soprattutto in campo etico. Ovviamente – continua il NYT – gli studi legali operano come se fossero “sotto copertura”. Negano per esempio la diffusione dei dati dei propri clienti, sfruttando la natura facoltativa dell’iscrizione al registro dei lobbisti. Così attirano le critiche di altri lobbisti, come quelli di Burston-Masteller, che lamentano soprattutto lo squilibrio competitivo. Ad oggi, comunque, non sembra che le critiche li preoccupino più di tanto.
Tengono banco altre voci. Quelle, ad esempio, di chi propone di “armonizzare” le regole europee con quelle d’oltreoceano. Ovviamente assimilando quelle del vecchio continente a quelle del nuovo. A parte la trasparenza, si evocano vantaggi professionali. Sulle tariffe applicate ai clienti, per dirne una. Leggenda vuole che un’ora di lavoro di un lobbista costi mediamente 1000 dollari.
Qualcun altro (a parte i lobbisti americani, ovvio) si oppone all’idea. Per esempio il signor Turmes, deputato dei Verdi a Strasburgo, secondo cui: “Lobbying is a bit like prostitution — it will always exist, and if you try to forbid it, then you would get a black market”. Non fa una piega. Altri fanno ragionamenti meno iperbolici, limitandosi a difendere il registro. Per esempio Sefcovic, vice Presidente della Commissione, secondo cui il registro tiene sotto controllo l’attività del 75% dei lobbisti iscritti.
Stima ambiziosa quella di Sefcovic (senza contare che, il restante 25%, cioè 1/4 del totale, non ci interessa in quanto dettaglio trascurabile?). Stime errate quelle del NYT, che pasticcia tra dati e dichiarazioni, senza trovare il punto. Punto che, per inciso, è semplice. Il registro non funziona, e non è colpa dei lobbisti americani. I quali, sempre per inciso, a Bruxelles ci sono da molto prima che il NYT se ne accorgesse.
E così l’unica nota veramente degna di merito è quella del deputato dei verdi. Lasciamolo così com’è, questo lobbying europeo, tanto c’è sempre stato. Lo sa bene chi frequenta Bruxelles e Strasburgo. Che, oltre a essere le capitali dell’Unione, sono anche le capitali della prostituzione, dotate di un vero e proprio esercito di escort che seguono le sedute di Parlamento e Commissione. Mestiere che vince, non si cambia.