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Una rivoluzione silenziosa. Anche per la geopolitica

Il revival petrolifero è sospinto da un ciclo di investimenti senza precedenti avviato nel 2003 e che ha raggiunto il picco dal 2010, con 1,5 trilioni di dollari investiti nell’upstream del gas e del petrolio negli ultimi tre anni. Nel complesso, la crescita della capacità produttiva avverrà quasi ovunque, determinando anche una sorta di “deconvenzionalizzazione” delle fonti petrolifere. Nei prossimi decenni, ciò porterà un aumento di quello che oggi definiamo “petrolio non convenzionale”: lo shale oil, le sabbie bituminose canadesi, gli oli ultrapesanti venezuelani e il greggio da formazioni pre-saline del Brasile.
 
Contrariamente a quanto molti credono, l’offerta petrolifera è in crescita nel mondo a un livello tale da superare potenzialmente la domanda. Ciò potrà condurre a un eccesso di capacità produttiva e a un crollo dei prezzi. Sulla base dell’analisi dei principali progetti di estrazione e sviluppo nel mondo, si può concludere che entro il 2020 si potrebbe ottenere una produzione aggiuntiva di oltre 49 milioni di barili al giorno (mbg) di petrolio (greggio o liquidi di gas naturale), oltre la metà dell’attuale capacità che è di 93 (mbg). Aggiustando questo dato per i fattori di rischio, associati a ciascun Paese e a ciascun progetto, la produzione aggiuntiva che potrà realizzarsi nel 2020 è di circa 29 mbg.
 
Calcolando il tasso di declino dei giacimenti oggi attivi e la crescita delle loro riserve (“Reserve growth”: crescita delle riserve recuperabili di un giacimento dovuta a revisione e ampliamento delle stime originarie, o a una maggiore efficienza nel recupero e alla scoperta di nuovi satelliti negli stessi giacimenti), la produzione netta aggiuntiva nel 2020 potrebbe essere di 17,6 mbg, per una capacità produttiva mondiale di 110,6 mbg: si tratterebbe del più grande incremento dagli anni Ottanta. Perché questa nuova offerta sia disponibile, il requisito è un prezzo di lungo periodo del greggio a 70 dollari al barile. Ad ogni modo, sotto questo livello e ai costi attuali, meno del 20% della nuova offerta sarebbe antieconomica. Soltanto quattro dei principali fornitori vedranno ridursi la loro produzione nel 2020: Norvegia, Regno Unito, Messico e Iran. Per gli ultimi due, la causa sarà soprattutto politica. Il revival petrolifero è sospinto da un ciclo di investimenti senza precedenti avviato nel 2003 e che ha raggiunto il picco dal 2010, con 1,5 trilioni di dollari investiti nell’upstream del gas e del petrolio negli ultimi tre anni. Nel complesso, la crescita della capacità produttiva avverrà quasi ovunque, determinando anche una sorta di “deconvenzionalizzazione” delle fonti petrolifere. Nei prossimi decenni, ciò porterà un aumento di quello che oggi definiamo “petrolio non convenzionale”: lo shale oil, le sabbie bituminose canadesi, gli oli ultrapesanti venezuelani e il greggio da formazioni pre-saline del Brasile.
 
Quattro Paesi che hanno il maggiore potenziale espansivo, e in ordine sono: Iraq, Stati Uniti, Canada e Brasile. Si tratta di una novità rilevante, perché tre dei quattro Paesi appartengono all’emisfero occidentale e solo uno (l’Iraq) al tradizionale centro di gravità petrolifera mondiale, il Golfo Persico. Il dato più sorprendente di questo scenario, tuttavia, è l’impennata della produzione Usa. Grazie alla rivoluzione tecnologica scaturita dall’uso combinato della perforazione orizzontale e della fratturazione idraulica, gli Stati Uniti stanno sfruttando i loro giacimenti di tight e shale oil, la cui produzione è già esplosa in North Dakota e Texas. Potrebbe trattarsi di un cambiamento di paradigma nel mondo petrolifero, tale non solo da permettere lo sfruttamento di formazioni di petrolio tight e shale ancora vergini, ma anche di aumentare il recupero di petrolio dai giacimenti convenzionali, dove il tasso di recupero attuale non supera mediamente il 35%. Vale la pena notare che la rivoluzione dello shale oil statunitense non sarà facilmente replicabile in altre aree del mondo, almeno a breve, non solo per la dimensione enorme dei giacimenti negli Stati Uniti, ma anche per alcune caratteristiche strutturali uniche del settore petrolifero Usa: la proprietà privata dei diritti di sfruttamento minerario, la presenza di migliaia di imprese indipendenti – spesso di piccole dimensioni – che storicamente si avventurano in business ad alto rischio e ad alto rendimento, la grande disponibilità di impianti di perforazione, e un mercato finanziario molto dinamico pronto a sostenere le scommesse dei nuovi pionieri.
 
Si tratta di caratteristiche non presenti in nessuna parte del mondo con l’eccezione del Canada – il che fa di questi due Paesi una sorta di irriproducibile area di sperimentazione e innovazione. Il mercato petrolifero ha già un buon livello di offerta. La capacità produttiva inutilizzata è probabilmente attorno ai 4 mbg, tale da assorbire anche pesanti shock come il venir meno della produzione iraniana. Le dinamiche della domanda, dell’offerta e della capacità inutilizzata non spiegano l’alto livello dei prezzi attuali – oltre i 100 dollari al barile, 20-25 dollari sopra il costo marginale di produzione (Brent). Solo fattori geopolitici e psicologici (in particolare, l’Iran) e una radicata convinzione che il petrolio sia in esaurimento spiegano l’allontanamento del prezzo dai suoi fondamentali economici. Insieme all’instabilità generale dell’economia mondiale, questi fattori renderanno il mercato petrolifero molto volatile fino al 2015, con ampie probabilità di una caduta del prezzo sui fondamentali, ma anche di nuovi rialzi dovuti a fattori geopolitici. Un’ipotetica riduzione del prezzo avrebbe un impatto rilevante – ma di breve periodo – se dovesse accadere prima del 2015. Se invece dovesse verificarsi dopo il 2015, potrebbe dar luogo a una prolungata fase di sovrapproduzione, perché la capacità produttiva sarebbe già stata espansa e i costi sarebbero scesi – a meno che la domanda petrolifera fosse nel frattempo cresciuta a tassi annui di almeno 1,6% l’anno per l’intero decennio. Potrebbe però accadere anche il contrario: un’improvvisa ripresa dell’economia mondiale potrebbe portare tensione sul mercato, specie se accompagnata da crisi geopolitiche – uno scenario che comunque stimolerebbe un’ulteriore corsa verso nuovi investimenti di sviluppo.
 
Mentre gli opinion-maker, i decisori, gli scienziati e gli operatori finanziari sembrano ancora irretiti dal mantra del “picco del petrolio” e da un eccessivo entusiasmo per energie rinnovabili che non sono alternative al petrolio (dal sole e dal vento si ottiene elettricità, non carburanti da trasporto), i prezzi e le tecnologie petrolifere stanno dando vita a una silenziosa rivoluzione nel comparto. Se questa “rivoluzione petrolifera” dovesse avverarsi, potrebbe cambiare il modo in cui tanti guardano all’energia e alla geopolitica.


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