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Caro Balduzzi, serve un impegno poco generico sui farmaci

Il decreto Sanità, a firma del ministro della Salute, Renato Balduzzi, non è la medicina giusta per i problemi del Paese. Anzi, secondo le imprese farmaceutiche e i sindacati del settore, è la cura da cavallo per rimpinguare le casse dell’industria del farmaco generico, che ha visto lievitare le vendite nell’ultimo mese, senza essersi mai impegnata nella ricerca e nello sviluppo, con un ritorno imprenditoriale a somma zero per l’Italia.
 
L’accusa delle imprese operanti in Italia, sia nazionali sia multinazionali, è che il governo, con questo provvedimento, le costringa a delocalizzare la produzione, inserendole in meccanismi competitivi svantaggiosi per questo tipo di aziende, che hanno dato finora lavoro a decine di migliaia di dipendenti e che oggi non sono più in grado di assicurare loro un futuro.
 
Il decreto, che risale ai primi giorni di settembre, nelle intenzioni del governo prevede, per il settore farmaceutico, meccanismi che rendano più rapida l’adozione dei farmaci di nuova generazione già approvati, ma anche elementi considerati negativi dall’industria del settore.
 
Ora, mentre sulla revisione del prontuario e sull’estensione dell’uso degli off label – norme contenute appunto nel decreto Balduzzi – sono stati introdotti in Parlamento miglioramenti che dovranno essere comunque confermati nel prosieguo dell’iter, rimane però l’elemento assolutamente penalizzante per le imprese della prescrizione con principio attivo, inserita nella spending review. Una norma di cui viene chiesta l’abrogazione.
 
In una lettera del 15 settembre, Farmindustria e le organizzazioni sindacali Filctem Cgil, FemCa Cisl e Uilcem sostengono che “l’industria farmaceutica ha bisogno di certezza e di stabilità delle regole per continuare a investire e a operare in Italia. Proprio quello che le è stato continuamente negato negli ultimi sei mesi con tre diversi provvedimenti, introdotti con decretazione d’urgenza, che hanno stravolto da un momento all’altro aree vitali per la sua attività e tagliato ancora una volta pesantemente la spesa farmaceutica pubblica”.
 
“Così non è più possibile prevedere occupazione, sviluppo e gli investimenti ed è ora di sapere se il nostro Paese voglia scommettere su questo settore hi tech o voglia ritenere di perderlo come è accaduto con altri comparti fondamentali nei decenni scorsi – si legge nella lettera -. Se, come auspichiamo, il governo intende fare leva anche sull’industria farmaceutica per la crescita e per evitare il declino, allora è necessario che si intervenga con urgenza, anche nell’interesse dei lavoratori e delle imprese, per modificare il quadro gravissimo determinato da alcune recenti norme”.
 
Farmindustria e le associazioni sindacali sostengono quindi, in particolare, la necessità di “rivedere la misura sulla prescrizione con principio attivo che premia i generici prodotti prevalentemente all’estero e penalizza i farmaci con marchio prodotti in Italia, provocando significativi spostamenti di fatturato con gravi effetti su investimenti e occupazione, senza alcun risparmio per il Servizio Sanitario Nazionale”.
 
Dall’introduzione della norma fino a settembre, le aziende hanno segnalato cali di mercato anche superiori al 30% o del 50% in alcuni casi. I dati di un campione più ampio (Ims per Farmindustria) mostrano che tra la media di giugno-luglio (quindi prima della manovra) e settembre le confezioni vendute hanno fatto registrare, a livello generale, una crescita del 9% per i farmaci generici e una riduzione del 6% per i farmaci con marchio.
 
In particolare, “la norma sulla prescrizione con principio attivo – ha affermato il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi – può decidere delle sorti a breve di un’industria con 65.000 dipendenti, il 90% dei quali laureati o diplomati; che esporta il 61% della produzione di 25 miliardi annui; che investe in ricerca e in impianti hi tech 2,4 miliardi all’anno. Un vero e proprio patrimonio manifatturiero per il Paese (secondo solo a quello tedesco), che l’Italia perderà presto se non si interverrà rapidamente per invertire la rotta che porterà alla delocalizzazione e alla chiusura di molti dei 165 impianti sul territorio. E le ricadute occupazionali potrebbero essere altrettanto preoccupanti: circa 10 mila posti di lavoro in meno nei prossimi 3 anni che si aggiungono ai 10 mila degli ultimi 5 (-13%)”.

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