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Il Pd, le primarie e la democrazia a scoppio ritardato

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Gianfranco Morra apparso sul quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi, Italia Oggi.

Due dei tre nostri maggiori partiti sono nati con un riferimento «sacro». I loro fondatori sono unici e insostituibili: il Cavaliere o il Guitto, che uniscono e uniformano Fi e M5S con i loro diktat. Sono partiti personalizzati nel leader maximo, «meno male che c’è». Nel terzo, invece, vince l’anarchia feudale: ciascuno per sé e tutti contro tutti. Nessun monarca nel Pd e tutti prìncipi. Una proliferazione delle correnti, ancora peggio di come avveniva nella Dc, dove, alla fine, un accordo (col geniale «Cencelli») si trovava. Ogni feudatario propone ciò che pensa gli sia utile o almeno ciò che impedirà agli altri di avere vantaggi. Il collettivismo si è trasformato in narcisismo.

UNA SCOPERTA TARDIVA
Non è solo male. Se i primi due partiti mancano di democrazia interna e rifiutano le primarie, non così il terzo. Il Pd la democrazia l’ha trovata tardi, un po’ come chi scopre il sesso a cinquant’anni e ne rimane ubriacato e sconvolto. Ma è pur sempre meglio che nella prima repubblica, quando il Pci era monolitico e centralista, dominato dagli apparati e dalla burocrazia. Oggi accetta il confronto, riconosce al suo interno pluralismo e correnti. Cose utili alla democrazia, anche se poi non sempre realizzate con i metodi più democratici. E di ciò senza dubbio il merito maggiore va a Matteo Renzi, che non a caso trova la sua antitesi in un politico dotato, ma anche fossilizzato come D’Alema, vecchio apparatcik al cento per cento. Che non ha il coraggio di sfidarlo direttamente, ma si serve di un «delegato», grigio anche se capace, come Cùperlo.

LA VITTORIA DI RENZI
Oramai sembra che i giochi siano fatti. Renzi ha già vinto la gara tra gli iscritti e l’8 dicembre stravincerà quella fra gli elettori. Appare chiaro che il suo modello è quello che piace all’elettorato, stanco del partito come strumento di una casta burocratica egemone e inamovibile. Lo avevano mostrato più di 4 milioni di votanti il 16 ottobre 2005, che scelsero Prodi e il suo Ulivo, nelle prime «primarie»: vinse come candidato della coalizione di sinistra con il 74,1 %.

ALTRE PRIMARIE
Di tutt’altro genere furono le primarie del 14 ottobre 2007: non si sceglieva il candidato premier, ma il segretario del PdL (oltre 3 milioni di votanti fecero vincere Veltroni col 75,8 %). Un partito in crisi notevole di iscritti volle guadagnare consensi e immagine aprendosi ai non-iscritti. Una decisione discutibile: sarebbe bastato usare il buon senso per capire che i compiti del segretario di un partito e quelli del candidato a premier sono assai diversi. E che le due cariche, come le due elezioni, devono essere distinte. Del resto, quando un segretario diviene capo del governo, di solito cede la segreteria.

UNA FACCENDA TRA ISCRITTI
Il partito è una associazione libera, come la bocciofila o il circolo della caccia o la società per azioni: tocca agli iscritti o agli azionisti di votare i dirigenti. È vero che una apertura ai non iscritti era già avvenuta nel 1982 al XV congresso della Dc, al quale parteciparono uomini attivi nell’associazionismo cristiano, intellettuale e sociale, scelti come delegati con voto. Segretario divenne De Mita. Io stesso fui uno di questi 75 «esterni», numero dunque limitatissimo. Ciò che invece il Pd e soprattutto Renzi vogliono è che chiunque, pagando un piccolo obolo, possa votare il segretario di un partito, del quale non è né iscritto, né sostenitore. Dice solo che gli piace.

SPAZIO AGLI ELETTORI
È solo nelle primarie per la consultazione elettorale che il partito dovrebbe aprirsi alla società civile, per capire quale suo candidato, di partito o di coalizione, otterrà il maggior numero di voti. Una elezione primaria aperta a tutti consente di far emergere quella personalità, che riesce a coagulare il maggior numero di consensi, dentro e più ancora oltre gli iscritti. Oggi è convinzione diffusa che Renzi abbia tutti i numeri per essere premier, soprattutto se ci dirà, non solo che è l’unico capace di farlo, ma anche quello che intende fare. Meno evidenti, in Matteo, altre qualità (equilibrio, pazienza, disponibilità, mediazione, antiesibizionismo), che sono richieste da un segretario politico.

SEGRETERIA E PREMIERATO
È possibile, ma non obbligatorio, che la vittoria della segreteria preluda a quella del premierato. Deve però stare attento a non fare l’errore rimproverato da Maàrbale ad Annibale: «Sai vincere, ma non sai fare buon uso della tua vittoria». Oggi, poi, il Pd, condominio pieno di risse, ha bisogno di un segretario a tempo pieno, non distratto da altri compiti e mire. Il PdL, del segretario, può fare a meno, tanto nel «fanum» di Arcore c’è solo l’«ipse dixit» del «deus ex machina»; il M5S vive nell’etere, il suo Segretario è il Web. Entrambi sradicati dal territorio. Non così il Pd: unico partito dotato di una organizzazione territoriale, ancora presente nel tessuto culturale e sociale, gestore non di rado efficiente (nonostante macchie non poche) di tante amministrazioni.

UN’IDENTITÀ DA RISCOPRIRE
È questa l’identità, che deve riscoprire e potenziare, se vuole contare qualcosa. E, per arrivarci, ha bisogno di un segretario che si dedichi subito e soltanto al partito, creando una «New Harmony» dalla quale, quando arriverà il momento, estrarre un candidato premier dotato e credibile. Che potrebbe essere lui stesso. Ma anche un altro.

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