L’accordo transitorio concluso a Ginevra il 23 novembre dal Gruppo 5+1 con l’Iran fissa per sei mesi dei tetti e delle limitazioni all’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran. In cambio, Teheran ottiene, oltre ad un implicito riconoscimento della sua legittimità ad arricchire l’uranio per usi civili – dall’elettronucleare al sanitario e alla ricerca scientifica – un lieve alleggerimento delle sanzioni. In sei mesi dovrebbe recuperare 6-7 miliardi di dollari, oggi congelati all’estero. Restano in vigore le sanzioni relative ai campi petrolifero, assicurativo e bancario, che sono le più pesanti per l’economia iraniana. Le hanno causato una perdita complessiva di almeno 600 miliardi di dollari. Inoltre, con l’accordo provvisorio, l’Iran evita le nuove pesanti sanzioni che stava predisponendo il Congresso americano, pensando che esse avrebbero indotto Teheran a maggiori concessioni.
CONSEGUENZE DELL’ACCORDO
La conclusione dell’accordo, per quanto limitato e temporaneo, ha provocato subito una “corsa all’Iran” da parte dei grandi gruppi petroliferi e industriali internazionali. Tutti vogliono accaparrarsi la maggior fetta possibile del mercato iraniano, potenzialmente molto ricco. L’Iran possiede infatti l’8% del petrolio e il 20% del gas mondiali. Di fronte a tale entusiasmo, sarà estremamente difficile per gli USA mantenere l’unità del Gruppo 5+1. Le prospettive del negoziato per un accordo definitivo sul nucleare sono perciò favorevoli, a meno che Teheran cerchi di approfittare della situazione, giocando un membro del Gruppo contro gli altri. Ciò irrigidirebbe la posizione degli Stati Uniti, nonostante il loro interesse a sfruttare le aperture iraniane per uscire in qualche modo dai numerosi stalli in cui si trovano in Medio Oriente.
DIFFICOLTÀ POLITICHE
Le difficoltà maggiori non riguardano tanto i negoziati sul nucleare. Sono politiche interne alle due capitali. Le opposizioni si sono mobilitate. A Washington sono particolarmente attive contro l’accordo le lobby saudita e quella israeliana. Netanyahu ha definito l’accordo “l’errore del secolo”. I suoi sospetti non sono stati fugati dalla partecipazione del deputato iraniano di religione ebraica, che simbolicamente Rouhani e il suo ministro degli Esteri hanno portato con loro a New York e a Ginevra.
IL VERO NODO DEL PROBLEMA
Il nodo del problema non è costituito dal nucleare e neppure dalla possibilità iraniana di procurarsi “la bomba”. A parte il valore di status symbol nel mondo islamico, il possesso di qualche arma nucleare da parte degli Ayatollah non aumenterebbe le loro capacità difensive né dissuasive. Queste ultime, per inciso, dipendono dalle capacità iraniane di bloccare lo Stretto di Hormuz. A parte la retorica scombinata del predecessore di Rouhani come presidente, gli iraniani hanno sempre dimostrato prudenza e cautela. Sanno benissimo due cose. Primo, che la loro proliferazione nucleare legittima una forte presenza americana nel Golfo, che forse Obama vorrebbe diminuire, anche se non potrà eliminare del tutto. Secondo, che senza la neutralità degli USA, come ai tempi dello Shah, l’Iran non ha alcuna possibilità di perseguire un’egemonia regionale, riprendendo i tradizionali progetti dall’Impero Safanide e dello stesso Shah.
LA CARTA IRANIANA
L’opportunità geopolitica che si è aperta a Teheran e da cui la nuova dirigenza iraniana sembra voler trarre vantaggio, deriva dal crescente timore dell’Occidente nei riguardi dell’estremismo sunnita e dall’opinione di molti esponenti americani che lo sciismo sia più ragionevole o, comunque, rappresenti un pericolo minore. Vari fatti dimostrano che le percezioni stiano mutando a Washington. Primo, il mancato intervento USA in Siria, nonostante Assad avesse superato la “linea rossa” dell’impiego di armi chimiche contro i civili. Secondo, la cessazione degli aiuti all’Esercito della Siria Libera, uniti all’appello rivolto ad Obama dall’ambasciatore Crocker – uno dei migliori diplomatici americani e artefice con il generale Petraeus del surge in Iraq – di negoziare la fine del conflitto con Assad, finora sulla “lista nera” americana. Terzo, gli aiuti militari concessi all’irachena filo-iraniano Nouri al-Maliki per metterlo in condizioni di combattere lo jihadismo sunnita nel suo Paese. Quarto, il fatto che mai come oggi la sicurezza di Israele sia stata tanto completa. Di fatto è alleato con gli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo. La defenestrazione di Morsi e della Fratellanza Musulmana in Egitto, garantisce i suoi confini occidentali. Il rafforzamento dei militari egiziani rappresenta un altro interesse condiviso fra Israele, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Anche se lo Stato Ebraico non potrà esplicitamente partecipare ai nuovi equilibri in Medio Oriente, ne costituirà un elemento rilevante. La sicurezza d’Israele si rafforzerà ancora con la messa sotto controllo internazionale dell’arsenale chimico siriano e della proliferazione nucleare iraniana.
UNA CONCLUSIONE POSSIBILE
Non penso probabile un improvviso rovesciamento delle alleanze degli USA in Medio Oriente. Ma certamente la geopolitica della regione e la politica americana – finora ancorati soprattutto agli accordi del 1945 tra Roosevelt e re Saud – subiranno degli adeguamenti alle mutate circostanze. L’Iran potrebbe essere un attore importante per affrontare molti problemi del “Grande Medio Oriente”, dall’Afghanistan al Mediterraneo Orientale. Potrebbe divenire parte della soluzione anziché dei problemi di una regione tanto importante strategicamente. Potrà diminuire la dipendenza energetica europea dalla Russia, che gli USA considerano preoccupante. Ci vorrà beninteso del tempo. Sarà necessario superare la sfiducia e i sospetti reciproci, ancora molto forti sia a Washington che a Teheran. Ma qualcosa si sta muovendo, ben più importante a parer mio della costruzione di qualche “bomba”, di cui l’Iran non saprebbe poi che fare. Anzi, costituirebbe una “palla al piede” non solo per la sua economia, ma anche per la sua politica.