In Sud Sudan è arrivato l’accordo, ma non quello che tutti si aspettavano: mentre ad Addis Abeba le delegazioni inviate dal presidente Kiir e dal suo ex vice Machar, oggi capo ribelle, continuano a prendere tempo rallentando i colloqui diretti, la sorpresa arriva da Juba. Ad annunciare un’intesa con il Sud Sudan è stato quello che ne è considerato il peggior nemico: il presidente nord-sudanese Omar al-Bashir.
Esperti arrivati da Khartoum aiuteranno i tecnici oltreconfine a far ripartire la produzione di petrolio, colpita dal conflitto in corso, e i pozzi saranno protetti da soldati di entrambi i campi: paradossale, per due entità che, tra 1983 e 2005 si sono affrontate in una sanguinosa guerra civile, accusandosi poi di sostenere ribellioni l’una nel territorio dell’altra.
Potenza – evidentemente – dell’oro nero: il petrolio è risorsa fondamentale sia per Juba – a cui sono andati la maggior parte dei pozzi che furono dell’allora Sudan unito – che per Khartoum, dotata di infrastrutture per portare il greggio al mare. Bisogna però chiedersi cosa Bashir vorrà in cambio dell’aiuto e delle altre concessioni (come la libertà di circolazione in Sudan per gli sfollati sud-sudanesi) fatte all’(ex?) nemico. Motivi per esultare, però, ne ha già adesso: malgrado si sia espresso a favore degli stagnanti colloqui di Addis Abeba, patrocinati dai paesi dell’Africa orientale, il presidentissimo di Khartoum – con la sua visita – potrebbe aver inferto un colpo alle ambizioni di molti di questi Stati, primi tra tutti proprio Kenya e Uganda, che fin dall’inizio della crisi si sono schierate apertamente a favore di Kiir contro Machar.
Superando Kampala e Nairobi nelle dimostrazioni di ‘amicizia’ – e scommettendo forse inaspettatamente sul presidente in carica – Khartoum acquista potere negoziale su entrambe le grandi questioni strategiche regionali del prossimo futuro: la scelta del corridoio preferenziale per il trasporto del petrolio (la vecchia pipeline che corre verso il nord e Port Sudan dovrà subire la concorrenza di quella che raggiungerà l’Oceano Indiano a Lamu passando a sud, per il Kenya) e il negoziato sulla spartizione delle acque del Nilo (in cui Khartoum gode ancora – grazie a trattati di epoca coloniale – di un trattamento di favore rispetto ai Paesi a meridione, compresa l’Uganda che nel bacino del Grande Fiume ha diversi progetti idroelettrici).
C’è da chiedersi, invece, cosa – a lungo termine – potrà guadagnare Kiir dall’accordo: se la crisi dovesse risolversi e le elezioni presidenziali previste per il 2015 tenersi, quanto peserà sull’attuale presidente la ‘macchia’ di aver fatto rientrare gli odiati ‘nordisti’ sul territorio nazionale. Forse su questo punto il capo dello Stato è tranquillo, prendendo esempio dalla storia personale del suo nemico di oggi, Machar, che negli anni ’90 guidò una scissione del movimento di liberazione sud-sudanese e firmò un accordo di pace proprio con Bashir, prima di tornare sui suoi passi e giocare un ruolo chiave anche nel nuovo Stato indipendente. Ma lo stesso progetto di riavviare la produzione petrolifera è facile a parole, meno nei fatti; il conflitto ha ormai contagiato l’intero Sud Sudan e la sicurezza resta, nella migliore delle ipotesi, elusiva.
In questo senso bisognerebbe chiedersi se la comunità internazionale ha veramente fatto tutto il possibile: la ricetta che si è voluta seguire è quella delle ‘soluzioni africane a crisi africane’. Assolutamente lodevole, ma anche rischiosa se non si hanno a disposizione negoziatori della statura di Nelson Mandela o dell’ex presidente tanzaniano Julius Nyerere, che trattarono la pace per il Burundi.
Non affidare la mediazione ad attori troppo vicini geograficamente (e quindi potenzialmente interessati all’una o all’altra soluzione del conflitto) presenterebbe, certo, alcune difficoltà: l’Unione Africana sta già spendendo energie in altre crisi, a cominciare da quelle in Somalia e Centrafrica; l’Onu è vista dai ribelli come sostenitrice di Kiir. L’impresa non sarebbe però impossibile, anche perché ne va della stessa credibilità di una comunità internazionale che ha salutato come un successo l’indipendenza sud-sudanese. Già qualcuno – come l’ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa, Hank Cohen – si chiede se la strada per la pace in Sud Sudan non passi per la creazione di un’amministrazione fiduciaria sotto mandato Onu. Ma prima di considerare la praticabilità e l’opportunità di questa proposta (gli stessi esempi fatti da Cohen, il Congo del 1960 e la Namibia del 1988-90, hanno portato a esiti drammaticamente opposti), un’altra domanda si impone, e sta ai diplomatici trovare la risposta: chi è in grado di mediare in modo disinteressato tra le fazioni?
Sud Sudan, la pace “sbagliata”
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