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Buttafuoco, l’erede di Pitré che anche Papa Francesco deve leggere

Il normanno-saraceno, anzi saraceno-normanno, Pietrangelo Buttafuoco ha colpito ancora. Presentando il suo libro Bompiani “Il dolore pazzo dell’amore”, il polimorfico intellettuale siciliano ha dimostrato, all’ennesima potenza, di non voler essere l’erede di Luigi Pirandello, né di Giovanni Verga, tantomeno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: è infatti il continuatore dell’opera di un genio quale fu Giuseppe Pitré, prode raccoglitore di novelle nei territori siculi, impegnato a non disperdere nelle fauci del tempo le storie di persone e villaggi (e amatissimo, per la sua opera enciclopedica, da Italo Calvino).

I VOLTI DELLA PRESENTAZIONE

Incastonato tra Giovanni Minoli e Mario Sechi, Buttafuoco, nello spazio Fandango della romana via dei Prefetti (memento Mori?), davanti a una platea dove spiccavano Carmen Llera e Chicco Testa, un appollaiato Fulvio Abbate autoesiliatosi sulla scala (ma coinvolto nell’apologia di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia), minoliani quali Giulia (la figlia, sposa di Salvatore Nastasi), Matilde Bernabei, Andrea Ettorre e tanti altri, ha riscosso applausi degni un teatro d’antan evocando le imprese di Giufà (ecco Pitré), giunto a Girgenti da Raffadali per dire una menzogna, ma graziato dal cadì (ah, i giudici di una volta, quando si era forse meno sudditi di oggi). E poi l’amore per una terra, la Sicilia, che nel libro viene narrata con affetto e passione: un’isola dove “al passaggio di una sottana, anche le pietre sudano” (parole che Bignami avrebbe sognato di notte per riassumere in poche parole la letteratura di Vitaliano Brancati).

LA FOTOGRAFIA DI UN’ISOLA

C’è un rispetto per il tempo passato, che poi è la garanzia dell’esistenza di un’antica civiltà: con le donne che nella borsetta avevano a portata di mano la veletta, lo zio sciupafemmine che era sposato ma “non fitto fitto”, le zie che sdegnavano i pretendenti non all’altezza, tra bigodini e vestaglie, e sembra di annusare l’odore del rosolio, guardando le tovaglie di pizzo con al centro il vaso di fiori, il mobilio d’altri tempi che pareva assorto da secoli nella penombra del salotto, in attesa di una rivoluzione. Dove tutto non doveva cambiare, con la complicità di personaggi come Maria, contadina che serviva in casa Privitera Squillaci, pronta distruggere in men che non si dica il decanter appena entrato nell’abitazione perché lì “bottiglie con il culo storto” non si dovevano vedere. “Alla verità bisogna credere, alla realtà no”, scrive Buttafuoco: come alla scena che vede protagonista lo scrittore Antonio Pennacchi che scatta nel saluto romano gridando “Presente!” ai funerali dell’ultimo podestà di Latina, Ajmone Finestra. Un rapporto fecondo, quello tra Buttafuoco e la morte, che anche nella serata romana è stato ricordato grazie a un passato che ha visto proprio lo scrittore nei panni dell’aiuto barbiere, impegnato a dover accompagnare il suo datore di lavoro nella casa di un contadino morto, che aveva bisogno di una rasatura prima di tornare definitivamente nella terra. Un uomo che, avendo sempre zappato, non era steso sul letto ma formava una mezzaluna, con una schiena ad arco che non poteva che provocare un senso di ilarità nel giovane Pietrangelo.

E in questo inferno che chiamiamo terra, Buttafuoco sottolinea che “anche i santi sono da mettere in castigo. Sono santi, è vero, ma quando stanno in cielo si prendono tutta la beatitudine del Paradiso e si scordano del proprio dovere, che è confortare gli uomini e lavorare per loro”, senza dimenticare che “noi abbiamo l’emicrania mentre loro, soavissimi, hanno il cerchio di luce dietro la testa”. Sì, un testo come questo lo deve leggere anche papa Francesco. Chissà se Buttafuoco ha pensato di inviare una copia al pontefice…



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