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Così la disoccupazione italiana è diventata strutturale

Nel 2007, il tasso di disoccupazione italiano era, con deboli tensioni inflazionistiche, al 6,1%. La percentuale dei ragazzi senza lavoro era del 20,3%, un po’ più del 6% se commisurata a tutta la popolazione in età tra i 15-24 anni. Quelle cifre sono diventate lo scorso novembre, rispettivamente, 12,7%, 41,6% e 11%.

GLI EFFETTI DELLA RECESSIONE
Il mercato del lavoro nel 2007 era segmentato, iniquo, escludente; ma di pieno impiego. Come valutare quello di oggi? Il raddoppiare delle statistiche della disoccupazione non è causato da un aggravamento dei difetti di funzionamento presenti nel 2007, ma dalla recessione. La disoccupazione di oggi è per la gran parte di tipo keynesiano, determinata da un livello inadeguato della domanda aggregata. I posti di lavoro disponibili sono pochi e razionati. In queste condizioni, per quanto significativi possano essere lo sforzo di ricerca e il taglio di retribuzione che sono disposti ad affrontare i lavoratori inoccupati, la disoccupazione stenta a ridursi. Vi è dunque un’elevata probabilità che se un’impresa non assume un lavoratore in più non è tanto per un suo costo eccessivo, quanto perché, in un mercato asfittico e con credito rarefatto, non saprebbe come utilizzarlo. Da questo ne deriva che misure volte ad abbassare i costi espliciti e impliciti (di licenziamento) del lavoro possano consentire di raggiungere l’importante obiettivo di migliorare il ricambio nei flussi di entrata e uscita nel mercato del lavoro, rendendolo meno iniquo, ma non riescono a ridurre il livello complessivo della disoccupazione che dipende dallo stato dell’economia.

MIGLIORAMENTI DIFFICILI
Con la ripresa questa situazione cambierà? Dato il modesto tasso di crescita atteso, è difficile che il mercato del lavoro migliori in misura sufficiente. Occorrerebbe una ripresa significativa della domanda aggregata per riassorbire la disoccupazione, un PIL che crescesse del 2-2,5% all’anno sin dal 2014 e per almeno un quinquennio. Un ritmo irraggiungibile all’interno dei paletti della politica economica italiana, a meno di immaginare il ridisegno dei vincoli europei (non per uno-due anni, ma per l’intero sentiero temporale del Fiscal Compact), oppure, nel rispetto delle regole vigenti, ridistribuendo in misura significativa risorse a favore delle persone (disoccupate, povere, a rischio di povertà) a elevata propensione alla spesa e delle imprese impegnate nella rat race della competitività di costo in atto nell’area euro.

LA RIPRESA CHE SERVE
In mancanza di una ripresa adeguata, la disoccupazione tende a incancrenirsi. Già oggi si osserva che una quota pari al 57% dei disoccupati è costituita da individui che sono senza lavoro da oltre un anno, le cui probabilità di reimpiego, in condizioni di ripresa, sono più basse rispetto agli altri lavoratori. È il bacino che rischia di alimentare la disoccupazione strutturale, cioè quella quota di senza lavoro resistente al ciclo economico e sotto la quale non si può scendere senza creare inflazione.

UN PEGGIORAMENTO STRUTTURALE
L’aumento prolungato della disoccupazione keynesiana porta quindi con sé, in assenza di correzione, i germi di un peggioramento strutturale che è difficile da curare. Il reinserimento dei disoccupati di lungo periodo nel mondo del lavoro solleva problemi in parte diversi da quelli che riguardano l’inclusione dei giovani che si affacciano nel mercato del lavoro. Se un disoccupato da oltre un anno viene percepito per le sue caratteristiche come non rispondente alle esigenze delle imprese, può non essere sufficiente abbassarne il costo di reclutamento per renderlo appetibile. Occorrono efficienti politiche di formazione, riorientamento e inserimento nelle imprese in espansione, qualunque sia il settore in cui si trovano le imprese di successo. Tali politiche vanno associate a un adeguato sistema di welfare (dal sussidio di disoccupazione per tutti coloro che perdono il lavoro a forme universali di sostegno del reddito) che miri certamente ad attivare inclusione, ma che metta anche nel conto la possibilità di fallimenti nelle operazioni di reinserimento. Questi ultimi saranno infatti tanto più probabili in un’economia in cui l’attività crescerà a ritmi bassi e dove l’offerta di lavoro supererà per un prolungato periodo la domanda, tal che la concorrenza tra disoccupati per l’accesso a posti scarsi tenderà a mantenere persistentemente “fuori dai cancelli” i lavoratori meno attraenti per le imprese.



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