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La Bocconi pubblica la ricerca sul lobbying

Finalmente è stata pubblicata sul sito della Bocconi (Research Unit on Law and Economics) una ricerca sul lobbying in Italia e nel mondo. La ricerca completa si trova Qui.

Qui invece trovate l’introduzione al testo, che spiega l’oggetto, i contenuti e le finalità delle ricerca.

Il secondo quaderno della Research Unit on Law & Economics (RULES) dell’Università Bocconi è dedicato al lobbying. Perché approfondire il tema della pressione degli interessi privati sulle istituzioni? È attuale? Che tipologia di problemi di natura giuridica, economica e sociale genera? È a queste domande che il quaderno tenta di rispondere.

L’attualità del tema, per cominciare. Percorso a ritroso, l’ultimo anno e mezzo di cronaca politica e istituzionale registra numerosi episodi in cui le istituzioni centrali e locali si sono confrontate con l’idea di dare regole certe alle lobby. A fine ottobre 2012, pochi mesi prima del termine della Legislatura, la sedicesima della storia repubblicana, il Parlamento ha approvato la legge sulla prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità della pubblica amministrazione. La legge n. 190 del 2012 – o legge “anti-corruzione”, come è stata definita dalla stampa nazionale – è il risultato di una gestazione complessa e di una mediazione serrata, prima in Commissione, poi in Aula. Complessità acuita dalle forti resistenze esercitate dagli addetti ai lavori e diretti interessati, i lobbisti, critici soprattutto nei confronti delle norme sul cd. “traffico di influenze illecite”. Norme inopportune, secondo i critici, perché introducono un sistema di sanzioni più severe, senza bilanciarlo con regole più ampie – e meglio strutturate – sui diritti di chi, per professione, rappresenta interessi di categoria.

Pochi mesi più tardi, ad aprile 2013, la nuova Legislatura è in impasse per la tornata elettorale appena conclusa e per l’impossibilità di formare un esecutivo. Il 12 aprile il gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali, costituito dieci giorni prima dal Capo dello Stato, pubblica un rapporto che illustra l’attività svolta. Il rapporto suggerisce, tra le altre cose, l’adozione di misure concrete per disciplinare l’attività di lobbying. “I gruppi di interesse particolare” – si legge nel testo – “svolgono una legittima ma non sempre trasparente attività di pressione sulle decisioni politiche”. Di qui una proposta che i “saggi” – è con questo appellativo che sono divenuti noti all’opinione pubblica – articolano in tre punti. Primo, creare un albo dei portatori di interessi e collocarlo presso il Parlamento e le Assemblee regionali. Secondo, attribuire a tutti i professionisti registrati il diritto di intervento nell’istruttoria legislativa. Terzo, obbligare le istituzioni a rendere esplicite le motivazioni delle decisioni che compiono, dando conto dell’interazione con i soggetti privati, per eliminare conflitti di interesse potenziali o attuali. Nel rapporto la proposta di disciplina delle lobbies si affianca a un “pacchetto” più ampio di interventi. Tra questi: il rifinanziamento ai partiti, il controllo dei costi della politica e, appunto, l’eliminazione del conflitto di interessi.

La relazione genera dibattito sui giornali, nelle aule d’università, nei convegni e, naturalmente, nelle stanze della politica. Il 15 marzo 2013, primo giorno della nuova legislatura, il deputato del Gruppo Misto Pino Pisicchio presenta un disegno di legge sul tema (C188 – “Disciplina dell’attività di relazione istituzionale”). È il primo della legislatura. Ma è anche il cinquantaduesimo disegno di legge in quasi 40 anni di attività parlamentare (il primo tentativo risale al 1976). Un dato incredibile se considerato dal punto di vista cronologico e posto a confronto con le grandi riforme che hanno scritto la storia dell’ordinamento italiano. L’approvazione della riforma del diritto di famiglia, ad esempio, ha richiesto due anni. Il processo di devoluzione di nuovi poteri alle regioni ed enti locali è stato portato a compimento nell’arco di due legislature, compreso il disegno di legge presentato dal governo nell’ottobre del 2012, contenente la “formula di salvaguardia” che affida allo Stato il compito di garante dei diritti costituzionali e dell’unità giuridica ed economica della Repubblica, oltre all’ampliamento delle materie di legislazione esclusiva dello Stato in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

Il disegno di legge presentato a marzo non è un caso isolato. Il 9 maggio 2013 il Senatore Riccardo Nencini, segretario del Partito socialista, deposita un disegno di legge sulla rappresentanza degli interessi (S645 – “Disciplina della rappresentanza di interessi”). A questo seguono, intervallati da pochi giorni di distanza, altre tre proposte, due alla Camera e una al Senato. La prima, a firma dal Senatore Bruno del Gruppo Misto, è presentata alla Camera il 20 maggio (C1000 – “Disposizioni in materia di rappresentanza di interessi presso le istituzioni”). La seconda, del 6 giugno, a firma del Senatore del Popolo della Libertà D’Ambrosio Lettieri (S806 – “Riconoscimento e disciplina dell’attività di lobbying e di relazioni istituzionali nonché istituzione della commissione speciale di controllo”). L’ultima proposta, su iniziativa del Senatore Luigi Manconi del Partito Democratico, (S992 – “Norme sul riconoscimento e sulla regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi presso organismi istituzionali”) è presentata il 5 agosto.

Anche il governo il 24 maggio aveva annunciato l’intenzione di intervenire sull’attività di lobbying attraverso un disegno di legge ad hoc. Dopo un incontro con i professionisti e le associazioni di rappresentanza (il 4 giugno) il testo è approdato in Consiglio dei Ministri per un esame preliminare il 5 luglio 2013. Sebbene formalmente il governo abbia comunicato di reputare necessario un supplemento di indagine, affidando il compito al Ministro degli Affari europei, in realtà le forti divergenze emerse in Consiglio tra i Ministri hanno decretato la morte dell’iniziativa. Una sorte simile al solo precedente di disegno di legge governativo sulle lobbies: fu elaborato dal Ministro per le Riforme Giulio Santagata, nel 2007. In quel caso fu la caduta del governo a impedire al testo di completare l’iter di approvazione in Parlamento.

In realtà anche l’Esecutivo dei tecnici aveva tentato, nei mesi precedenti, di intervenire sul tema. In un primo momento, era stata costituita una Commissione di valutazione presso il Dipartimento delle politiche europee; in seguito, a maggio 2012, il Governo aveva inserito nel programma di lavoro dei mesi successivi una menzione esplicita alla necessità di disciplinare l’attività di lobbying. Entrambi i tentativi sono stati infruttuosi. I lavori della Commissione – il cui compito era formalmente la valutazione di un progetto redatto dal CUEIM – sono terminati a dicembre 2012, senza che alla fase tecnica seguisse, come inizialmente auspicato, una fase “politica”, di proposta. Anche il programma delle azioni di Governo non è stato attuato nella parte relativa alle regole del lobbying. In realtà nel corso del dibattito parlamentare di approvazione della legge 190 l’ipotesi è stata presa in considerazione, ma è stata scartata subito dopo per non appesantire ulteriormente l’iter di approvazione del provvedimento.

In compenso ha avuto esito positivo – ed è tuttora operativa – l’iniziativa promossa dal Ministero per le politiche alimentari e forestali. L’iniziativa, mirata alla creazione di un registro dei portatori di interessi, ha preso vita nel 2011, ma è entrata ufficialmente a regime soltanto un anno più tardi, a settembre 2012. L’Unità per la Trasparenza, preposta al registro, ha il compito di gestire l’attività di interazione tra il Ministero e i rappresentanti di interessi che hanno necessità di relazionarsi con esso. La gestione dell’elenco dei portatori di interesse si traduce prevalentemente nella direzione delle procedure di consultazione dei lobbisti iscritti durante le fasi di elaborazione dei disegni di legge e degli schemi di regolamento per i quali è prevista obbligatoriamente l’analisi di impatto della regolamentazione. A luglio 2013, ultimo dato disponibile, l’elenco dei rappresentanti di interessi comprendeva 101 soggetti tra singoli professionisti, associazioni di categoria, società di lobbying e, ovviamente, aziende. Tra i tanti, spiccano i nomi di Enel, Lipu, dell’associazione Slow Food e di Nomos. Dalle informazioni diffuse dall’Unità si ricava un dato interessante: il numero di soggetti che hanno chiesto – e ottenuto – l’iscrizione nel registro segna una progressione costante nel tempo.

Infine, il 2012 ha visto alcune amministrazioni locali schierarsi a favore di nuove regole per il lobbying. In particolare le regioni Campania, Friuli e Veneto hanno avviato processi di ricognizione normativa con la finalità di approvare leggi organiche sulla materia. Nel 2013 la regione Marche ha approvato una nuova legge sulla rappresentanza degli interessi.

La tendenza registrata a livello locale conferma un dato importante. Nonostante la parziale inversione nella divisione delle competenze Stato-Regioni voluta dall’esecutivo guidato da Mario Monti – e a fronte di ben 23125 atti parlamentari dedicati, durante la Legislatura precedente, al tema degli enti territoriali – l’attività normativa regionale rimane numericamente preponderante rispetto a quella dello Stato centrale. Dal 2004 al 2009 le leggi regionali approvate sono passate da 665 a 737. Fatta eccezione per il 2010, quando l’avvicendamento nelle Giunte e nei Consigli prodotto dalle elezioni amministrative ha causato un periodo di stasi legislativa, il trend è in crescita anche negli anni successivi. Nello stesso intervallo le leggi approvate dal Parlamento sono calate da 32 a 18. Anche qui il trend (decrescente) è confermato negli ultimi quattro anni, a fronte della prevalenza assoluta della decretazione d’urgenza, che ha depauperato ulteriormente il Parlamento delle proprie prerogative. Una delle conseguenze principali della preponderanza numerica delle regioni rispetto allo Stato è che l’attività di pressione viene esercitata con intensità crescente sul territorio. Ragione che aiuta a spiegare la solerzia con cui le giunte e i consigli regionali si sono mosse per dare una cornice giuridica alla materia.

Quello delle lobbies si rivela dunque un tema di grande attualità e, al tempo stesso, a elevato tasso di problematicità. Qualsiasi scelta di regolazione, compresa quella di non adottare alcuna regola, apre a scenari che non sono solamente complessi, ma sono anche particolarmente volubili, a causa della varietà di soluzioni e dei modelli di riferimento che da quelle discendono. Modelli che, presi in esame singolarmente, non sono in condizione di garantire un miglioramento tangibile dello status quo. A ulteriore dimostrazione delle divergenze marcate sull’opportunità e sul merito di provvedimenti a disciplina degli interessi lobbistici c’è il dibattito acceso tra giuristi, economisti, sociologi e giornalisti, italiani e stranieri, sul ruolo e la rilevanza delle lobby nelle democrazie. Per la dottrina politologica e giuridica le lobbies rappresentano un indicatore specifico delle democrazie moderne, corpi intermedi senza i quali sarebbe difficile per il decisore pubblico poter legiferare. Secondo questa interpretazione le lobbies sono strumenti indispensabili per il processo democratico di formazione delle decisioni. Non tutti però sono d’accordo al riguardo. Gli economisti, per esempio, tendono a considerare il lobbying una di quelle attività finalizzate a modificare i punti di equilibrio del mercato, un condizionamento delle logiche normali di un sistema capitalistico, mera risorsa di rent seeking. Così anche l’opinione pubblica. Alla crescente conoscenza del processo decisionale da parte dei cittadini – favorita anche dai nuovi mezzi di comunicazione, grazie ai quali è possibile reperire una mole sempre più corposa di informazioni e notizie in tempo reale – corrisponde una tendenza contraria a diffidare degli interessi che vengono rappresentati nell’arena politica pubblica. Diffidenza acuita dai media, che offrono letture distinte sempre da un tono negativo e colpevole sull’attività di lobbying. Si mostrano gli intimi rapporti tra lobbisti professionisti e legislatori, si confondono le attività oscure di ambigui faccendieri e decisori pubblici con la legittima rappresentanza degli interessi presso le sedi istituzionali. Tra traffico illecito d’influenza e corruzione, i gruppi di interesse vengono descritti alla stregua di agglomerati di potere che lavorano in segreto esercitando pressioni sui governi per scopi egoistici.

È in questo quadro particolarmente complesso che è nata e cresciuta la domanda di regolamentazione da parte dei gruppi di pressione e, più in generale, la richiesta di maggiore trasparenza dei processi decisionali. Per comprendere e fare ordine ci sono cinque aspetti che, più di altri, meritano un approfondimento. A ciascuno di questi il quaderno dedica un capitolo. Lo fa unendo due metodi: empirico, per quanto riguarda la raccolta e l’esposizione dei dati; logico-deduttivo, per isolare i problemi e ipotizzare, quando possibile, soluzioni operative.

Alcuni modelli di regolazione dell’esercizio della professione lobbistica sono stati già sperimentati all’estero. Non a caso nel dibattito accademico e istituzionale sull’opportunità di adottare nuove regole per le lobby, sono frequenti i riferimenti alle esperienze di altri Paesi. Tra le best practices accreditate ci sono quelle degli Stati Uniti (o più in generale dei Paesi di area common law) e dell’Unione europea. In realtà, il “trapianto” di soluzioni estranee al nostro ordinamento presenta più di un problema. Oltre, banalmente, alla compatibilità tra sistemi di regole talora molto diversi tra loro, bisogna considerare la diversa filosofia di cui quelle regole sono espressione. La sola idea della tracciabilità totale dell’operato di un titolare di carica elettiva (regola che in alcuni ordinamenti, non tutti, è accettata) in Italia fatica ad affermarsi, sostenuta soprattutto dalle nuove forze politiche approdate in Parlamento. Senza contare che non sempre le esperienze straniere raccontano di successi. Il Registro dei lobbisti del Parlamento europeo e della Commissione, per fare un esempio, rappresenta un caso di funzionamento a singhiozzo, che lascia molti problemi irrisolti. Non ultimo quello della completa tracciabilità dei soggetti che fanno attività di pressione. Di scarso impatto sono state anche le leggi approvate da alcuni governi europei, per esempio quello tedesco e francese. Per queste ragioni il quaderno inizia l’indagine dalla casistica extra-nazionale, con particolare attenzione ai profili critici dei singoli Paesi e alle opportunità offerte da ciascuno di questi (CAPITOLO 1).

Dallo scenario internazionale l’analisi si sposta a quello nazionale (CAPITOLO 2). Al netto delle tesi secondo cui nel nostro ordinamento esiste già un impianto di regole (per cui non si auspica un intervento originale, semmai un riordino normativo della materia) e tenuto conto della variabilità potenzialmente infinita delle soluzioni adottabili, i modelli predominanti sono tre. Il primo è il modello degli “incentivi” e sposa la logica della premialità. In sostanza, chi aderisce al regime di trasparenza accede a un sistema di garanzie maggiori rispetto a chi, al contrario, non vi aderisce. Il secondo modello, della “gabbia”, punta invece a creare un sistema rigido di regole che impedisce l’esercizio della professione di lobbista senza il rispetto di un regime di trasparenza e rendicontazione particolarmente stringente. Il terzo modello, della “inclusione”, unisce due esigenze. Tutela cioè sia i professionisti della rappresentanza, sia i comuni cittadini o le associazioni. L’obiettivo, in questo caso, non è tanto quello di definire confini certi per la rappresentanza di interessi, quanto piuttosto rendere i percorsi decisionali delle amministrazioni il più possibile partecipati. Quello dell’inclusione è il modello usato più frequentemente, almeno nei suoi tratti essenziali, ma è anche il più problematico. In effetti, l’aumento della linea di credito aperta dalle amministrazioni a favore di forme più o meno innovative di consultazione, spesso telematica, è utile per migliorare la reputazione delle istituzioni che le promuovono. Tuttavia, nel momento in cui diventa la sede privilegiata per interagire con i privati portatori di interessi rischia di “fagocitare”, o mettere in secondo piano, altre possibili ipotesi di interazione tra l’istituzione e i portatori di interessi.

Il CAPITOLO 3 dedica un’analisi approfondita al caso delle autorità amministrative indipendenti. Le peculiarità che distinguono le authorities dalle altre amministrazioni (e in particolare i più ampi margini di autonomia decisionale di cui godono rispetto alle amministrazioni centrali) legittimano l’attenzione alle regole che disciplinano l’interazione con le parti private. Le autorità indipendenti sono considerate, da questo punto di vista, piccoli laboratori presso cui si sperimentano modalità talora originali di interazione e confronto con gli interessi privati. Nessuna di queste ha a disposizione regole esplicite per l’interazione con i professionisti della rappresentanza di interessi. Tutte però adeguandosi agli standard europei coinvolgono in diverse occasioni e con strumenti diversi i portatori di interessi (sia privati cittadini che associazioni di rappresentanza). Dall’analisi degli esiti delle consultazioni emerge un quadro di interazioni ricco e complesso.

Sempre a proposito di modelli di regolazione delle lobbies, è possibile – e anzi accade frequentemente – che questi si sovrappongano generando forme ibride nelle quali convivono (e si completano) finalità anche molto diverse tra loro. In genere questo fenomeno si verifica sul territorio, per opera delle amministrazioni locali, soprattutto quelle di minori dimensioni. Il quarto capitolo discute il rapporto tra la rappresentanza degli interessi privati a livello centrale e quella a livello territoriale (CAPITOLO 4). Le domande aperte sono numerose: può funzionare un solo sistema di regole o sono preferibili tanti sotto-sistemi quante sono le tipologie di amministrazione coinvolta? Che valore ha una disciplina pensata e sviluppata entro un’area geografica circoscritta? L’esperienza maturata su un territorio è esportabile altrove, oppure richiede “aggiustamenti”? Di che tipo? Le pagine dedicate all’analisi del lobbying territoriale fanno emergere soprattutto due dati. Anzitutto, la difficoltà con cui gli amministratori locali, in particolare quelli dei centri medio-piccoli (ma a volte anche quelli regionali) arrivano a creare un sistema di regole trasparenti per l’interazione con tutti i portatori di interessi privati. Più spesso si sceglie di fare affidamento su forme di consultazione tradizionale, ad esempio quelle disciplinate nella legge sul procedimento amministrativo del 1990. Il secondo dato è positivo. Si registra un’attenzione crescente, ancorché embrionale, nei confronti del tema. Gli amministratori locali e le aziende iniziano a comprendere quanto sia importante disporre di percorsi istituzionali di confronto stabili e trasparenti attraverso i quali collaborare.

Il quinto e ultimo capitolo affronta il tema dell’accreditamento dei professionisti della rappresentanza di interessi privati (CAPITOLO 5). Si tratta di capire, in altre parole, quali sono e come sono strutturati i percorsi di formazione e apprendistato di coloro che svolgeranno la professione di lobbista. È un problema recente. Non tutte le proposte di regolazione della materia presentate in passato hanno preso in considerazione questo aspetto. In alcuni casi perché lo si è ritenuto ininfluente, o scontato. In altri casi per semplici ragioni di opportunità. Alcuni sostengono infatti che, sul punto, sarebbe preferibile una soft regulation: intervenire cioè solo sui requisiti minimi di accesso alla professione, e incoraggiare la versatilità dei percorsi formativi. Questa soluzione, per molti aspetti apprezzabile, dimentica che la totale liberalizzazione ha finito per legittimare un “sottobosco della formazione” privo di qualsiasi criterio ordinatore, una giungla in cui è difficile distinguere le molte offerte per livello di serietà. Senza contare che, al pari di quanto è accaduto in altri settori produttivi, l’eccessiva versatilità rischia di cronicizzare la precarietà dei percorsi professionali, in particolare dei più giovani.

Dalla composizione a sistema delle riflessioni svolte nei capitoli precedenti emergono alcune linee programmatiche generali. La principale è senz’altro quella delle conseguenze cui porterebbe una riforma organica delle lobby. Le ricadute positive non si discutono. A giugno 2013 una survey condotta dall’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica ha quantificato in quattordici punti percentuali il beneficio che regole chiare in tema di rappresentanza di interessi porterebbero al sistema economico italiano. Si tratta di capire, semmai, come capitalizzare il risultato normativo e appianare le diversità di vedute sul tema. La stessa ricerca dell’OCSE ha messo in evidenza la (spesso profonda) diversità di vedute in merito alla tipologia di scelte da compiere, soprattutto su tre punti: quali regole dare alle lobby, cosa fare dei codici di condotta e come intervenire sulle “porte girevoli”. Il 57% dei parlamentari e il 51% dei lobbisti intervistati affiderebbero a strutture governative il compito di disciplinare i lobbisti e vigilare sulla loro attività. Se, tuttavia, il 30% dei lobbisti è favorevole all’auto- regolamentazione, nessun parlamentare guarda con benevolenza all’autodichia (il 70% la considera addirittura controproducente). I codici di condotta incassano il giudizio positivo della maggioranza degli intervistati. Pochi però li giudicano efficaci come deterrente. Per il 61% il rispetto delle regole deontologiche non porta alcun beneficio concreto e, in ogni caso, violare una norma deontologica non dà quasi mai luogo a sanzioni. Ultimo tema dibattuto è quello delle revolving doors. Una parte degli intervistati (il 13%) giudica troppo stringenti le regole che disciplinano il passaggio da un incarico politico a uno lobbistico e suggerisce di attenuarle. Il 25% crede invece che siano troppo permissive, e auspica un giro di vite. La maggioranza, il 63% del totale, è concorde nel giudicarle del tutto inadeguate.

I risultati della ricerca dell’OCSE sono emblematici. Se, da una parte, si invocano più regole per i lobbisti, non si possono trascurare le ricadute che queste avrebbero sul sistema politico-istituzionale, a cominciare dal regime generale di trasparenza dell’azione amministrativa, passando per le regole sul finanziamento ai partiti (altro tema di cui si auspica la riforma), fino ad arrivare al ripensamento integrale degli strumenti di consultazione della società civile. È evidente, in altre parole, che la maturazione definitiva delle regole sulle lobby non può essere circoscritta a una singola legge. Passa necessariamente attraverso un ripensamento profondo delle procedure e delle strutture pubbliche.

A conclusioni molto simili giungono altre due ricerche, pubblicate in concomitanza con quella dell’OCSE. La prima, curata dall’associazione Alter-EU, ha preso in esame soprattutto i difetti del registro europeo del lobbying. Il rapporto mette in evidenza aspetti noti, 3 in particolare. Il primo riguarda la mappatura parziale delle lobbies da parte del registro europeo. Parzialità che discende dalla natura facoltativa dell’iscrizione, per cui mancano all’appello intere categorie professionali che in realtà esercitano frequentemente attività di pressione. È soprattutto il caso di studi legali e dei giornalisti. Il secondo e il terzo aspetto critico sono legati tra loro e riguardano, rispettivamente, la frequenza di aggiornamento e la completezza dei dati contenuti nel registro. Alter-EU pone in evidenza la pessima qualità delle informazioni, che sono lacunose e poco aggiornate. Circostanza che ovviamente rende il registro poco utile allo scopo per cui è nato: garantire la trasparenza del sistema. Anche la seconda ricerca, curata da Burson-Marsteller, si sofferma sulla scarsa convinzione degli operatori di settore pubblici e privati nei confronti delle discipline europee del lobbying. A fronte dell’89% di opinioni a favore di regole trasparenti per la rappresentanza professionale degli interessi, il 26% ritiene che la trasparenza sia il problema più urgente da risolvere, il 24% considera prioritario eliminare la disparità di trattamento a favore degli interessi economicamente più forti, e il 23% esprime un giudizio critico sulla effettiva neutralità delle informazioni diffuse dalle istituzioni. Anche in questo caso, il fronte dei favorevoli all’introduzione di regole più omogenee a favore dell’attività di lobbying è compatto e preponderante.

Inevitabilmente l’agenda del legislatore nazionale ed europeo dei prossimi mesi, forse anni, sarà occupata dal tema della regolazione del lobbying. Queste ultime riflessioni, e le altre contenute in questo quaderno, consentono di fare il punto sullo stato dell’arte della disciplina dell’attività lobbistica, individuano alcuni problemi aperti e pongono in luce le numerose contraddizioni normative del tema. L’auspicio è che possano dare un contributo, anche minimo, all’avanzamento del dibattito sul tema.


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