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Eugenio Corti e il Cavallo Rosso dimenticato

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’articolo di Gianfranco Morra apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi

Inutile cercare la notizia su «Televideo». La rubrica «cultura» ci informa sul riconoscimento della figlia di Balotelli e sulla morte per droga dell’attore Hoffman. Tace sulla scomparsa di uno dei più grandi scrittori del secondo Novecento, morto a 93 anni nella sua Besana Brianza, dove era nato. Cosa del tutto comprensibile: Eugenio Corti era un insistente anticonformista. Era un «paolotto», come tanti brianzoli, cioè un cattolico praticante e tradizionalista. Tanto che non mancò (altro motivo di «biasimo» da parte dell’establishment culturale del cattocomunismo) di polemizzare contro gli eccessi e soprattutto le banalità del postconcilio, intitolando il suo pamphlet con la famosa frase di Paolo VI: Il fumo nel tempio (1996). La Chiesa, per lui, era tradizione non «aggiornata», ma «rinnovata», di cui il Catechismo di Pio X e la Messa latina esprimevano l’anima perenne. E ce ne fu anche per la Dc, ch’egli considerava in via dissolvimento ideale e politico: Breve storia della Dc, con particolare riguardo ai suoi errori (1995).

LA VITA E LA GUERRA

Primo di 10 fratelli, era nato in una famiglia di industriali tessili, ma preferì farsi scrittore. Fu educato nel Collegio S. Carlo di Milano. Quando l’Italia entrò in guerra, si presentò come volontario e fu destinato al fronte russo come ufficiale di artiglieria. Dove vide l’ARMIR e il suo battaglione praticamente distrutti: di 30.000 soldati ne tornarono 4.000. Rientrò in Italia insieme col compagno di dolore e di fede, il lombardo (ora beato) don Carlo Gnocchi. Aveva conosciuto i due più terribili totalitarismi del secolo: quello russo e quello germanico. Decise di scegliere la democrazia. Dal Nord passò nel Sud liberato e combatté negli eserciti alleati per la liberazione.

UN SUCCESSO INATTESO

Quella terribile esperienza del fronte russo, vissuta a 21 anni, egli fu il primo a farla divenire un romanzo, che fu molto lodato da Croce: I più non ritornano (1947). Altre due importanti «memorie» della strage vennero dopo: quelle degli alpini Mario Rigoni Stern (Il sergente nella neve, 1953) e Giulio Bedeschi (Centomila gavette di ghiaccio, 1963). Ma il capolavoro di Corti arriverà trent’anni dopo: Il cavallo rosso (1983, 1270 pagine!). Un successo inatteso: 27 edizioni, tante traduzioni, dall’Olanda al Giappone. Nonostante il clima culturale dell’epoca gli fosse avverso, come riconosce nel titolo del necrologio Il Sole-24 Ore: «Un silenzio ingiusto sulla sua opera».

L’OMAGGIO ALLA BRIANZA

Ma Corti non ci dato solo il dramma russo. Il cavallo rosso estende la sua narrazione sino al 1974. Non è solo la sua storia, ma quella di una intera generazione. Ed è un omaggio amoroso alla sua Brianza, ritrovata dopo il gelo sarmatico. Terminata la guerra, in questa terra laboriosa riprendeva la vita, anche se nuovi pericoli la insidiavano, la droga e il terrorismo. È caratteristico di Corti che la narrazione si innalzi sempre a testimonianza: «Addio montagna, patria, reggimento, addio mamma e primo amore, cantavano gli alpini. Cantavano e piangevano gli alpini valorosi, e c’era nel loro canto paziente lo struggimento della nostra impotenza».

IL SUO LAVORO TEATRALE

Una testimonianza anzitutto della condizione umana, ma anche della umana comunità. Mai uomo di partito, Corti fu sempre sensibilissimo agli eventi sociali e politici. Come nella pièce Processo e morte di Stalin, portata in teatro da Diego Fabbri (1962): non solo una denuncia degli orrori del comunismo, ma anche l’intuizione del percorso di dissoluzione del totalitarismo sovietico aperto dal processo di destalinizzazione di Kruscev. La risposta fu una «operazione silenzio» della cultura dominante. Ma il suo lavoro teatrale divenne un «samizdat» nei paesi del comunismo reale.

I RICONOSCIMENTI

Ebbe anche dei riconoscimenti ufficiali, come la Medaglia d’oro dei benemeriti dell’arte e della cultura, concessagli l’anno scorso dal presidente Giorgio Napolitano. Meglio tardi che mai. Egli non se ne rallegrò troppo. Da sempre critico delle ideologie e dei loro sacerdoti, gli intellettuali, considerava l’industria culturale come la fine della cultura autentica. Manteneva fede a una scelta di cui non ha mai dubitato per tutta la vita: «Preferisco essere considerato uomo di cultura più che “intellettuale”, una figura che nasce nel Settecento e incarna l’utopismo senza Dio. I due pilastri della cultura sono la verità e la bellezza».

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