L’ipotetica riduzione dei salari paventata da Electrolux nelle scorse settimane, come condizione della permanenza in Italia di uno dei suoi stabilimenti, ha suscitato un’ondata di indignazione e di inquietudine, proprio perché appare emblematica delle estreme conseguenze della globalizzazione e della competitività sempre più carente del nostro sistema produttivo. Delocalizzazione di stabilimenti e investimenti produttivi nei paesi emergenti o meno sviluppati, dove si pagano salari più bassi, si offrono minori garanzie ai dipendenti e, sotto diversi profili, si sostengono costi di produzione meno gravosi, sono fenomeni da tempo diffusi nell’imprenditoria italiana e, in particolare, nel settore manifatturiero, strategico e qualificante per la nostra economia.
LA “PROPOSTA INDECENTE” DI ELECTROLUX
E da tempo la tendenza a portare all’estero la produzione è al centro di polemiche politiche e sindacali e si presta a valutazioni contrastanti. Ma che addirittura un colosso straniero, non investito, al momento, da una grave crisi produttiva e commerciale, avanzasse esplicitamente la “proposta indecente” di una sensibile riduzione dei salari in cambio della garanzia di conservare la produzione in Italia era ancora difficile immaginarlo. La disinvolta sfida del colosso svedese, il cui investimento nel Friuli era stato a suo tempo generosamente incentivato dall’amministrazione regionale, rende improvvisamente evidente, anche agli occhi dei più tenaci assertori degli antichi equilibri tra le classi e delle concertazioni ad oltranza, la gigantesca trasformazione che hanno registrato negli ultimi anni le relazioni industriali e la forza contrattuale delle parti sociali.
PER UNA STABILITA’ OCCUPAZIONALE
Le opportunità offerte a 360 gradi dal mercato mondiale sembrano vanificare ogni forma di garanzia delle condizioni di lavoro e della stabilità occupazionale sul territorio. Se la condizione fondamentale per investire in Italia diventa quella dell’equiparazione al trattamento retributivo dell’operaio polacco, non c’è possibilità di salvezza per questo paese. I criteri devono essere invertiti, il ragionamento completamente reimpostato, altrimenti ci abbandoniamo ad una deriva ingovernabile!
LA DESERTIFICAZIONE INDUSTRIALE
E’ allarmante quel rischio di “desertificazione industriale” denunciato dal Presidente di Confindustria Squinzi nella sua recente lettera al Presidente del Consiglio. Una strategia per allontanare questa prospettiva deve innanzitutto tenere conto che l’elevato costo del lavoro è uno dei problemi rilevanti, non la causa principale della crisi produttiva. Incidono in misura maggiore la scarsa competitività tecnologica in taluni settori e le difficoltà finanziarie legate soprattutto alla contrazione del credito. I consumi interni hanno subito un drastico rallentamento e anche l’export. Il settore manifatturiero, formidabile tessuto trainante della ricchezza dei nostri territori, tra il 2002 e il 2007 ha registrato un calo produttivo del 25%, perdendo 750.000 occupati.
IL CASO ELECTROLUX
Electrolux, insidiata dalla sensibile concorrenza di produttori turchi, cinesi e coreani e dalla contrazione della domanda nei paesi più avanzati, teme anch’essa di ritrovarsi impigliata nelle maglie della crisi. Il costo del lavoro superiore a quello di molti altri paesi europei viene indicato come impedimento alla necessaria competitività. Il rimedio indicato – riduzione degli attuali salari – determinerebbe condizioni di ulteriore impoverimento dei lavoratori dipendenti e delle loro famiglie, con conseguente ulteriore contrazione dei consumi e intensificazione della crisi sociale, già aggravata dalla diffusa disoccupazione e dall’estrema carenza di prospettive per i giovani. Forse per lo stabilimento Electrolux di Porcia, così come per diverse imprese manifatturiere del nostro Paese, la sfida della concorrenza polacca, turca e dell’Estremo Oriente può essere affrontata invece sul terreno della qualità e della tecnologia del prodotto.
QUALITA’, UN VALORE AGGIUNTO
Chi ai nostri giorni produca lavatrici tradizionali con tecnologia semplificata e bassi margini viene facilmente travolto sui mercati dai concorrenti dei paesi emergenti. E’ invece sul valore aggiunto di tecnologie sofisticate e di una qualità del prodotto medio-alta, su strutture organizzative e processi di automazione più avanzati che possiamo confidare per salvaguardare le necessarie quote di mercato senza perdere ulteriori posti di lavoro o ridurre retribuzioni già insufficienti rispetto alle esigenze fondamentali delle famiglie.
POLITICA INDUSTRIALE, GRANDE ASSENTE
E’ il tema centrale della politica industriale che a volte sembra il grande assente dei nostri estenuanti e ripetitivi dibattiti politici, sempre caratterizzati da sterili astuzie dialettiche e inutili tatticismi, ma tristemente carenti di progetti strategici che consentano all’esecutivo e al Parlamento di tornare al centro della programmazione, senza inseguire, di volta in volta, le iniziative, più o meno estemporanee, dei singoli colossi produttivi. Proprio la scorsa estate abbiamo celebrato il settantesimo anniversario dello storico seminario di Camaldoli, tenutosi in una delle fasi più drammatiche della storia del nostro Paese, che si concluse con la definizione dei principi che costituiscono il Codice che dalla cittadina casentina prende il nome. Principi ritenuti alla base delle politiche perseguite poi, nel dopoguerra e oltre, dalle nuove classi dirigenti democratiche, per elevare le condizioni del Paese e consentirgli di accedere al consesso delle maggiori potenze industriali, mentre si tagliavano i traguardi del miracolo economico e della piena occupazione. Obiettivi raggiunti attraverso riforme ispirate a quei principi concordati a Camaldoli da un gruppo di studiosi illuminati e coraggiosi in quella fosca estate del 1943, mentre Roma veniva bombardata, le forze angloamericane avanzavano dalla Sicilia e l’Italia stava per precipitare nella tragedia della guerra civile!
URGE UN NUOVO PROGETTO ECONOMICO E INDUSTRIALE
Anche ai nostri giorni, in una fase certo diversa, ma a suo modo inquietante, perché l’esasperazione sociale può compromettere l’ordine pubblico e la fiducia nelle istituzione democratiche, sarebbe necessario un impegno di definizione di un nuovo progetto economico e soprattutto industriale per adeguare il sistema produttivo alle sfide della globalizzazione.
Di questo si avverte costantemente l’assenza, pur nell’avvicendamento dei governi e delle maggioranze dei diversi colori e non sembra ancora prendere forma, nel merito, una visione di insieme che risulti credibile alle parti sociali e all’opinione pubblica. L’efficacia delle evoluzioni politiche che si profilano in questi giorni all’orizzonte si misurerà soprattutto su questo.