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Il Tesoro svela le cifre sulla Tobin Tax all’Italiana (dalle poche luci e dalle molte ombre)

mercati

Nel 1972 l’economista statunitense James Tobin propose la creazione a livello internazionale di una tassa oscillante tra lo 0,05 e l’1 per cento sul valore degli scambi finanziari, allo scopo di stabilizzarli penalizzando le speculazioni valutarie a breve termine, e di garantire agli Stati enormi risorse per sradicare dal pianeta la povertà. All’indomani dell’esplosione della crisi del 2008, singoli Paesi hanno proceduto a una sua adozione parziale.

LA SORTITA DEL GOVERNO MONTI

Tra di essi l’Italia, che l’ha introdotta su iniziativa del governo di Mario Monti con la legge di stabilità 2012. La norma stabilisce a partire dal 2014 un’imposta dello 0,1 per cento sull’acquisto di azioni e strumenti derivati effettuata sul territorio nazionale da società con capitalizzazione superiore ai 500 milioni di euro. Il tributo sale allo 0,2 per cento se la transazione viene compiuta al di fuori dei mercati regolati. Restano esenti dal prelievo i titoli di Stato, per i costi elevati che ricadrebbero sulle istituzioni pubbliche.

LE INCOGNITE SULL’APPLICAZIONE DELLA TASSA

Un convegno dal titolo “Più equità e risorse per la crescita”, promosso a Montecitorio dalla Commissione Bilancio della Camera dei deputati e dall’Intergruppo per la finanza sostenibile, ha rappresentato un’occasione preziosa per fare il punto sugli effetti dell’applicazione della Tobin Tax. Ne emerge un panorama di poche luci e molte ombre. A partire dal rischio, ampiamente suffragato, di spingere verso altri circuiti l’attività degli investitori istituzionali che dovrebbero rivitalizzare un mercato di capitali sempre più asfittico. Consolidando e stabilizzando i prezzi di obbligazioni e derivati finora fissati da un gruppo ristretto di grandi banche d’affari.

UN NEBULOSO REGIME FISCALE

Un’esigenza tanto più avvertita in un’Italia storicamente carente di una moderna cultura del rischio, in grado di attrarre capitali esteri nei comparti produttivi promettenti. Nella quale lo Stato, e la CONSOB, svolgano un ruolo efficace di regolazione e sanzione. Ritardi e mancanze che si inseriscono in un regime fiscale quanto mai nebuloso, alla luce dell’intervento sulle rendite finanziarie recentemente ipotizzato dal sottosegretario della Presidenza del Consiglio Graziano Delrio.

L’IMPATTO DEL TRIBUTO SUL GETTITO

A spiegare la ragioni dell’imposta è Vieri Ceriani, consigliere del ministro dell’Economia e delle Finanze e architetto della Financial Transaction Tax in Italia. Fino al 2012 il tributo esisteva soltanto in Francia, mentre in Gran Bretagna vigeva un’imposta di bollo sui passaggi effettivi di titoli azionari che produce un gettito annuo di 5 miliardi di euro. Negli anni Settanta era stato il governo svedese a tentare l’esperimento su un paniere limitato di beni finanziari. Gli esiti furono fallimentari, poiché l’iniziativa provocò una fuga di capitali all’estero. È logico dedurne che l’idea di fondo della tassa – far pagare agli “gnomi della finanza” il prezzo della crisi del 2008 – può essere tradotta in realtà se realizzata su vasta scala.

LA POSIZIONE DELLE FINANZE

Era questo, spiega Fabrizia Lapecorella, capo del Dipartimento finanza del MEF, l’obiettivo e lo spirito della direttiva emanata nel febbraio 2013 dalla Commissione europea. Norma che punta a una cooperazione rafforzata sul terreno finanziario e a fronteggiare la speculazione sui mercati di capitali. E che prevede a regime un introito complessivo di 34 miliardi annui. Ma su di essa non è stato raggiunto un consenso unanime a livello comunitario, soprattutto per l’opposizione del Regno Unito all’estensione dei suoi effetti fuori dei confini Ue. La conseguenza dello stallo è evidente nel nostro Paese, in cui il tributo ha prodotto un gettito annuo fra 300 e 400 milioni di euro sui 500 previsti (a MF/Milano Finanza, Ceriani ha indicato l’importo di 285 milioni di euro come incasso nel 2013). A riprova che il problema non è tanto tassare a priori ogni attività finanziaria per colpire a tutti i costi il profitto.

LE CRITICHE DELLE BANCHE E DELLA BORSA

Forte ostilità nei confronti della FTT viene dai principali operatori finanziari. Laura Zaccaria, responsabile Direzione norme e tributi dell’Associazione bancaria italiana (Abi), ricorda come l’imposta, assente nella quasi totalità degli Stati europei, rischi di provocare un gap competitivo oltre a creare una discriminazione tra detentori dei titoli del debito pubblico e di buoni e postali e titolari di obbligazioni, azioni, derivati. Forme differenti e legittime di utilizzo del risparmio privato: “Frutto di redditi già soggetti a prelievo, ricchezza nazionale che dovrebbe essere tutelata e non aggredita”.

Raffaele Jerusalmi, amministratore delegato di Borsa italiana, mette in rilievo la contrazione del 15-20 per cento provocata dal tributo sul mercato di azioni e derivati. A suo giudizio sarebbe più ragionevole fissare una tassa sui profitti simile all’IRAP. “Mentre è controproducente colpire il mercato di capitali – 15 miliardi raccolti dalle banche quotate in piena crisi – in una fase di elevata richiesta di liquidità”. Anziché esporsi a rischi non valutabili, gli operatori verrebbero spinti a investire in Germania, dove l’imposta non esiste.

LA DIFESA DELLA TOBIN TAX

Strenuo sostenitore della Tobin Tax è Leonardo Becchetti, professore di Economia politica all’Università “Tor Vergata” di Roma e tra i più autorevoli studiosi del micro-credito. Ricordando come esista un legame tra deregulation finanziaria, crisi bancaria, aumento delle diseguaglianze, contrazione del Prodotto interno lordo, l’economista rivendica la logica ispiratrice della FTT.

Concepita e calibrata, precisa, per non scoraggiare gli investimenti finanziari nel lungo termine. E focalizzata sugli scambi che esauriscono i loro effetti nella giornata. Ai suoi occhi la tassa, se è vero che riduce i volumi di affari quotidiani del 25 per cento, diminuisce della stessa cifra la volatilità dei prezzi. Esercita una funzione stabilizzatrice, e potrebbe essere applicata ai titoli di Stato: “Perché riconduce gli scambi azionari al ruolo di servizio dell’economia reale secondo i principi di precauzione ed efficienza”.

LE PERPLESSITA’ DELLA POLITICA

Scetticismo e dubbi percorrono il mondo partitico. Il capogruppo del PD in Commissione Finanze Marco Causi precisa che la proposta lanciata da James Tobin, maturata in mondo molto meno globalizzato nel flusso di capitali, oggi aumenta i costi di transazione, non riduce la volatilità dei mercati e fa calare gli scambi finanziari. Molto più efficaci a suo avviso le imposte sugli extra-profitti bancari e speculativi, e i prelievi sulle rendite finanziarie. Per il suo collega di partito Giampaolo Galli, economista e già direttore generale di Confindustria, è miope pensare che una tassa distorsiva del funzionamento dei mercati possa evitare il ripetersi della crisi finanziaria generata dalla bolla nel mercato immobiliare, il meno liquido che ci sia.

Il nostro Paese, spiega l’ex direttore generale di Confindustria, ha più che mai bisogno di una Borsa ricca di scambi e risorse, con più incentivi agli investimenti in capitali e fiducia nei risparmiatori italiani e internazionali. E il legame tra risparmi e investimenti da una parte e impresa e lavoro dall’altra avrebbe bisogno di garanzia di tranquillità: “Perché se è vero che bisogna ridurre il cuneo fiscale sul lavoro è altrettanto doveroso tagliare il cuneo fiscale sul risparmio”.

LE VOCI POLITICHE A FAVORE DELLA TASSA

Fautore di una proposta legislativa che punta a ridurre il prelievo e ad allargare la base imponibile della tassa sugli scambi finanziari è un altro esponente del Nazareno, l’ex presidente delle ACLI Luigi Bobba: “Vogliamo un tributo uniforme per tutte le transazioni senza eccezioni, discriminazioni ed effetti distorsivi sul mercato. Lo scopo è evitare la de-localizzazione degli scambi, promuovere la trasparenza nei circuiti finanziari e il trasferimento delle risorse nei mercati regolamentati italiani”.

Analoga impostazione è manifestata dal deputato Cinque Stelle Alessio Villarosa, che auspica un regime fiscale identico per il mercato finanziario e per l’economia reale: “Soltanto così potremo evitare una concorrenza sleale rispetto a chi investe capitali ad alto rischio in una fase di crisi dei consumi con un’imposizione tributaria abnorme. La priorità dei penta-stellati è applicare la FTT al livello più ampio possibile, concentrarla sulle operazioni di 24-48 ore, armonizzare la tassa sul capital gain – non sui BOT e CCT – al 25 per cento previsto nel resto d’Europa. E utilizzare le risorse ottenute per ridurre cuneo fiscale e IRAP.

Più radicale Giulio Marcon, rappresentante di Sinistra e Libertà e promotore dell’iniziativa “Sbilanciamoci”: “Il problema non consiste solo nel recuperare denaro per l’Erario allo scopo di fronteggiare la crisi provocata dal tracollo dei mercati finanziari, riportare gli investimenti di capitali dal terreno speculativo all’originaria finalità assicurativa coerente con i principi di utilità collettiva”.



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