Oggi offro un commento che ho scritto sull’ottimo pezzo di Thierry Meyssan (riportato qui sotto). C’è da meditare e decidere in fretta sulle scelte da compiere in un mondo che sta subendo il più grande cambiamento dal XVI secolo.
Il vero nodo di squilibrio mondiale è che ormai tutti sanno, Usa in primis, che il dollaro è fallito. La ‘respirazione artificiale’ si sta inesorabilmente spegnendo. I tempi per la dichiarazione del ‘coma’ oscillano tra 2 e 5 anni, quindi tra la fine della presidenza Obama e il suo successore che potrebbe essere Hillary Clinton.
In questo quinquennio gli Usa devono riuscire a invertire i flussi di capitali mondiali, riportandoli sul dollaro. Tutto ciò che succederà sarà un gioco di tattiche per questo obiettivo. I principi di integrità territoriale sono vecchi di 400 anni e non servono se non ad attizzare la retorica. Essi sono difendibili solo se il ‘potere costituito’ governa effettivamente i flussi economici, finanziari e informativi, mentre il territorio e i popoli sono solo degli alibi utili per negoziare. La democrazia, i suoi corollari di libertà, sono strumenti troppo costosi e inefficienti di governo, che ostacolano la realizzazione degli obiettivi del ‘potere’. L’intero comparto chiamato Occidente dovrà subire una massiccia dose di ‘aggiustamento strutturale’, cioè di modifica profonda e durevole del modello di società. L’alternativa, sarebbe il declino dell’esistente, la frustrazione e la recriminazione, e quindi il prodromo di una grande guerra mondiale.
L’Ue diventa così un ‘eunuco’ politico e geopolitico. Altro che Stati Uniti d’Europa! L’esperienza comunitaria e ‘europeistica’ volge al termine. La nuova ‘Nato’ economica e strategica, sarà il volano per la sopravvivenza dell’Occidente.
Ciò fatto, sarà possibile tentare un nuovo negoziato per la ‘governance’ mondiale, oltre Yalta, oltre Westfalia, e oltre la democrazia. Si deve sperare che le forze reazionarie, cioè quelle che pretendono ristabilire il vecchio ordine mondiale, non abbiano il sopravvento in Usa, Russia, Cina, India e Iran.
L’Europa, non potendo contare su nessun altro fattore, ed essendo una periferia del mondo, potrebbe cercare di rilanciare la propria ‘intelligenza’ per favorire la nascita di idee nuove e possibilmente universali. La via intrapresa da Bergoglio è l’unica possibile.
John Kerry non ha una politica, ma una tattica
Oggi, ogni conflitto è legato all’altro, dall’Ucraina alla Siria. Washington non farà la guerra a Mosca, ma spingerà gli europei ad automutilarsi. [T. Meyssan]
Nel mondo globalizzato, ogni conflitto è legato all’altro. Pertanto, quel che succede ora in Ucraina si riflette in altre regioni. Per Thierry Meyssan, le rodomontate di Washington non sono destinate a fare la guerra a Mosca, bensì a spingere gli europei ad automutilarsi per il suo sommo profitto. Allo stesso modo, l’abbandono del processo di Ginevra può essere un modo per far cadere gli interessi sauditi e concentrarsi su una qualche regolazione in Palestina.
Il Segretario di Stato John Kerry (qui durante il suo scalo a Roma) non ha una politica predefinita. Prende l’iniziativa su tutti i temi, ma non in modo da conseguire vittorie decisive, bensì al fine di trovare occasioni per avanzare le sue pedine. Così, dopo aver sostenuto il colpo di stato della CIA in Ucraina, si preoccupa ora non tanto del futuro della Crimea, quanto di come potrà avvantaggiarsi sul piano economico complessivo della sua sconfitta politica locale.
Tre eventi hanno appena sconvolto la scena internazionale: da un lato, la crisi che oppone gli occidentali alla Russia in merito all’Ucraina, dall’altro, la guerra segreta che gli Stati del Golfo hanno dichiarato l’uno contro l’altro, e infine l’adozione da parte del Consiglio del popolo siriano di una legge elettorale che esclude di fatto la candidatura di cittadini fuggiti dal paese durante la guerra.
Gli Stati Uniti avevano previsto un quarto evento, una “rivoluzione colorata” in Venezuela, ma l’opposizione non è riuscita a unire a sé le classi popolari. Gli occorrerà buttare giù questa carta più tardi.
Washington vuole trasformare la sua sconfitta in Ucraina in una vittoria per la sua l’economia
La crisi in Ucraina è stata preparata e messa in opera dagli occidentali, ha preso la forma di un colpo di stato sullo sfondo di violenze da mostrare in televisione. La Russia ha risposto con abilità, seguendo la strategia di Sun Tzu, prendendosi la Crimea senza combattere e lasciando i problemi del paese, economici e politici, ai suoi avversari. Nonostante le rodomontate di Bruxelles e di Washington, gli occidentali non infliggeranno un secondo colpo e non adotteranno alcuna sanzione economica significativa nei confronti di Mosca: l’Unione europea esporta il 7% della propria produzione verso la Russia (123 miliardi di euro in macchine utensili, automobili, prodotti chimici…) e importa il 12% dei suoi beni (215 miliardi di euro principalmente in idrocarburi). Il Regno Unito, la Germania, l’Italia, i Paesi Bassi, la Polonia e la Francia verrebbero particolarmente colpite. La City è largamente finanziata da patrimoni russi che stanno già evaporando, come indicato da una nota interna di Downing Street fotografata dalla stampa britannica. Aziende come BP, Shell, Eni, Volkswagen, Continental, Siemens, Deutsche Telecom, Reiffsen, Unicredit e sicuramente molte altre, verrebbero affondate. Negli Stati Uniti, la situazione è migliore, ma alcune multinazionali, come la seconda impresa del paese, la Exxon, hanno notevoli attività in Russia.
In ogni caso, Washington sostiene un discorso assai vigoroso che la obbligherà a reagire. Tutto avviene come se il colpo di Stato sia stato preparato dalle figure radicali del regime (Victoria Nuland, John McCain…) e abbia inizialmente imbarazzato il presidente Obama, sebbene gli abbia offerto un’opportunità inaspettata per risolvere la sua crisi economica a spese dei suoi alleati: i disordini in Ucraina, se si generalizzano sul piano economico e politico in Europa, spingeranno i capitali attualmente basati sul vecchio continente verso Wall Street. Questa sarebbe l’applicazione sia della dottrina Wolfowitz del 1992 (impedire all’Unione europea di diventare un potenziale concorrente degli Stati Uniti) sia della teoria di Christina Romer, del 2009 (salvare l’economia USA attraverso un assorbimento dei capitali europei come alla fine della crisi del 1929). Ecco perché dovremmo aspettarci un gelo nelle relazioni diplomatiche tra Washington e Mosca, almeno apparentemente, e una forte recessione in Europa nel 2014.
In queste condizioni, non si vede in che modo l’accordo sulla pace generale nel Vicino Oriente potrebbe essere attuato, nel momento in cui ogni pezzo della scacchiera stava per trovare il suo posto. Intanto, il progetto di Ginevra 3 per la Siria è sospeso sine die. Mentre la “pace” israelo-palestinese, che aveva fatto passi in avanti con il ritorno di Mohamed Dahlan, è stata silurata dalla Lega Araba che si oppone – per ora – al riconoscimento di Israele come “Stato ebraico”.
Fra gli Stati del Golfo c’è ora uno strappo sui Fratelli Musulmani
Un altro elemento nuovo: la guerra segreta che ormai si sono scatenati reciprocamente gli Stati del Golfo. Il Qatar ha appoggiato un tentativo di colpo di stato dei Fratelli Musulmani negli Emirati a novembre. Gli Emirati, l’Arabia Saudita e il Bahrain hanno appena sospeso le loro relazioni diplomatiche con il Qatar, e i sauditi sono stati i mandanti di un attentato a Doha. Il Qatar non sembra pronto ad abbandonare i Fratelli Musulmani per il cui trionfo Washington aveva organizzato le “primavere arabe”, prima di lasciarle cadere.
La politica degli Stati del Golfo è diventata un inverosimile ginepraio nella misura in cui dei monarchi da operetta mescolano i loro interessi statali con le loro ambizioni personali e affinità mondane. Dimenticati gli anatemi tra il Servitore-delle-due-sante-moschee e la Guida della rivoluzione iraniana, che negoziano la loro riconciliazione, la lite del giorno ruota attorno ai Fratelli Musulmani considerati non come una corrente ideologica, ma come una carta da giocare.
La Siria non vuole negoziare la pace con i sauditi
Il terzo elemento di novità è l’approvazione, ritrasmessa alla televisione, da parte del Consiglio del Popolo (Parlamento), della prossima legge elettorale siriana. I deputati alla fine hanno adottato una clausola secondo la quale i candidati alla presidenza dovranno aver vissuto nel corso degli ultimi dieci anni nel paese. Tale disposizione esclude di fatto i cittadini che sono fuggiti dalla Siria durante la guerra.
L’inviato speciale dei Segretari generali della Lega araba e delle Nazioni Unite, Lakhdar Brahimi, ha immediatamente dichiarato che questa scelta rischiava di mettere fine al processo di risoluzione negoziata del conflitto. La Francia ha depositato un progetto di dichiarazione del Consiglio di Sicurezza per rilanciare il processo di Ginevra. Sebbene non vi sia alcuna menzione della nuova legge elettorale, è l’ultimo tentativo occidentale di reputare la guerra in Siria come una “rivoluzione” e di considerare la pace come un accordo tra Damasco e un’opposizione fantoccio interamente nelle mani dell’Arabia Saudita. L’ex portavoce del Consiglio nazionale siriano, Basma Kodmani, che è stata allevata in un’ambasciata saudita, ha assicurato che “il regime di Damasco” non sarebbe in grado di tenere le elezioni presidenziali e ha proposto di prendere in considerazione questo fallimento in piena guerra come la prova che si tratti di una dittatura. La NATO potrebbe così tornare in scena e farla finita con Bashar al-Assad, così come pianificato a partire dal 2003 e nonostante le occasioni mancate dei “massacri” del 2011 e del “bombardamento chimico” del 2013. Tuttavia, dopo essersi riconciliata con Riyadh, attraverso l’organizzazione di Ginevra 2 a propria discrezione, Washington si disinteressa nuovamente dei collaboratori siriani dei sauditi.
Se non c’è Ginevra 3, l’Occidente dovrà o attaccare la Siria (che non è più possibile che prendere la Crimea, come si è già sperimentato la scorsa estate), o lasciare marcire la situazione per un decennio, o addirittura affermare che la “Rivoluzione” è stata sequestrata dagli jihadisti e ammettere che la guerra è ormai una questione anti-terroristica di interesse globale.
John Kerry, che è un uomo d’affari prima di essere un diplomatico, non ha una politica prestabilita, ma una tattica. Come al solito, Washington non sceglierà una soluzione piuttosto che un’altra, ma farà ogni sforzo per privilegiare un esito che gli risulti preferibile intanto che si perseguono le altre opzioni, per ogni evenienza. Non potendo più negoziare con la Russia, lo farà con l’altro alleato militare della Siria, l’Iran. Da un anno in qua, il Dipartimento di Stato discute con la Repubblica islamica, prima segretamente in Oman, e poi ufficialmente con il nuovo presidente Rohani. Ma le cose si scontrano con i khomeinisti per i quali con gli imperialisti non si parla, li si combatte fino alla morte. Tenuto conto delle contraddizioni interne dell’Iran, Washington ha moltiplicato le avanzate e le ritirate per progredire meno velocemente del previsto.
Se non vi è alcuna urgenza per gli Stati Uniti di risolvere la questione siriana, è al contrario di vitale importanza garantire la perpetuazione della colonizzazione ebraica della Palestina. A questo proposito, l’Iran si è ricordato il Dipartimento di Stato: su suo ordine, la Jihad islamica ha improvvisamente bombardato il confine israeliano. Teheran, che era stata esclusa da Ginevra 2, si è pertanto invitata a qualcosa di assai più importante: la trattativa regionale. In questo spirito, il Senato USA terrà tra una decina di giorni un’audizione sul tema “La Siria dopo Ginevra”. La formulazione suggerisce che si sia messa una croce sopra sul prosieguo di questa “conferenza di pace”. I senatori non sentiranno gli esperti dei think-tank israeliani a Washington, come fanno di solito quando si tratta del Vicino Oriente, ma la responsabile del fascicolo presso il Dipartimento di Stato, il loro miglior stratega in materia di guerriglia, e uno dei loro due principali esperti sull’Iran.
In definitiva, la “pace” regionale, se dovesse mai accadere, potrà essere solo nella maniera immaginata da John Kerry: sacrificare il popolo palestinese anziché la colonia ebraica. Hassan Nasrallah ha messo in guardia contro questa ingiustizia, ma chi si opporrà quando i principali leader palestinesi hanno già tradito i loro rappresentati?