Skip to main content

Percipio, ergo est

“La percezione è quasi tutto in economia”, sosteneva Lanfranco Pace, sul “Foglio”, e c’è da credergli, come c’era da credere a coloro che, da anni, andavano ripetendo teorie simili. Arrivare a constatare che la crisi sarebbe finita mi pare un po’ eccessivo, ma abbiamo bisogno, oltre che di proposte coraggiose, anche di proposizioni del genere, che mirano non tanto alla rappresentazione realistica di uno “stato di cose”, quanto alla produzione di un effetto positivo sul reale, e che definirei, perciò, “performativi”. Anche Berlusconi, un tempo, provò ad avventurarsi in un’operazione del genere, ma gli andò male, perché fu quasi unanimemente sbeffeggiato: i ristoranti erano pieni o no? (Pieni di italiani o di stranieri, innanzitutto?) Non importa. Annunciandolo, si tentava di far sì che lo fossero, ecco, o che lo fossero sempre di più.

Il destino della realtà, dopo il grande assalto che le è stato mosso, sin dagli albori dell’epoca moderna – per non parlare di ciò che sta succedendo, in questa “post” o “iper” modernità -, è quello di essere divenuta inafferrabile, indecidibile, discutibile, e nessuno sarebbe in grado di darne una definizione salda e condivisa. Allora, la riconquista di una realtà comune passa da un compito primario che riguarda tutti noi: dobbiamo liberarci gli occhi, e non si può che farlo liberando l’anima. Chi di noi è in grado di dirsi immune dal peccato di pigrizia, quando ha ecceduto in critiche che non sentivamo come correttamente formate e che, ciononostante, sono state da noi ripetute, ribadite, gridate dinanzi a pubblici accomodanti e complici?

La critica è l’atto più impegnativo e rischioso che un uomo possa compiere, ed è là che si gioca la sua soggettività, il suo diventare ciò che vuole essere: non si può criticare sbadigliando, e confidando nella benevolenza degli ascoltatori, che è immancabilmente arrivata, in tutti questi anni iper-critici di critiche applaudite e facili.

Quando incontro certi vecchi compagni di scuola e noto che anche il secchione più sfigato di allora, occhialuto e diligente (e astemio), si definisce un “ribelle”, bè, quello è il segnale, per me inequivocabile, che qualcosa è andato storto, in Italia.


CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter