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Nessuno (mi) può giudicare

Chi sono io, per giudicare? “Non giudico vostra madre”: a Lecco, il papà delle tre sorelline uccise ha sentito, in cuor suo, di doversi esprimere così, e mi sembra che il rispetto e la buona educazione dovrebbero imporci di non commentare le sue parole, faticosamente sgorgate fuori da quel malloppo di amore, orrore e stupore che è spesso la vita, pronunciate in seguito a ciò che è accaduto, che è prossimo all’indicibile.

Qualcuno, però, il compito di giudicare dovrà assumerlo, prima o poi, purtroppo – ma anche per fortuna. Un po’ mi impensierisce, infatti, un atteggiamento del genere, lasciando in pace il padre e sperando che riesca a ritrovare, chissà come e dove, un qualche senso all’esistenza: parlo di altri, di chi non fa che ripetere che non si può giudicare proprio un bel nulla e nessuno, e del loro nuovo dogma, tanto comune ed esteso da essere la nuova frontiera dominante dell’existentially correct.

Non so manco quanto tale precetto possa essere evangelico, se condotto alle sue estreme conseguenze. Sembra che la paralisi della capacità di giudizio interessi tutti noi, che avvertiamo qualsiasi affermazione forte come indebita e violenta: anche quelle che, alla violenza, cercano proprio di porre un argine. Quasi impossibile, però, ipotizzare una soggettivazione, un percorso morale da intraprendere, nella speranza di riuscire, un giorno, a diventare chi siamo, chi vogliamo essere, senza la prova esperienziale del giudizio, del coraggio che si richiede a chi voglia disegnare le proprie linee di frattura, sulla tavolozza del mondo, e non accettare quelle che altri poteri mondani, quotidianamente, impongono o suggeriscono.

“Ma io vi dico di non resistere al male”: millenni di interpretazioni possibili o plausibili di tale passo si sono accumulate, ma nessuna riuscirà a persuadermi che il risultato di tale principio della non-resistenza debba essere il deserto delle convinzioni, il volto vuoto di ogni giudizio.

Poi, ci sarebbe anche la necessità di guardarsi dentro, prima di scagliare una qualsiasi pietra, sia essa la prima o l’ultima, ma non si tratta di scagliare pietre, in questo caso, secondo me, quanto di non lasciare che il male ti avviluppi e ti trascini in una spirale in cui tutto diventa uguale a tutto il resto. Bisognerebbe proprio recuperarla, la potenza semantica espressa dal greco “krinein”, che indica l’atto del separare, del distinguere, del differenziare, del discriminare – verbo vietato, lo so -: l’alternativa qual è, se non il nichilismo omologante?


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