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Ecco l’Enrico Berlinguer non raccontato nel film di Walter Veltroni

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’articolo di Gianfranco Morra apparso sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi

Il più grande partito comunista dell’Occidente ha avuto due personaggi mitici, che corrispondono a due precisi periodi della sua storia, il leninismo e la destalinizzazione. Il primo fu Gramsci, che non solo lo fondò, ma gli suggerì una strategia per conquistare la società civile.

GUARDA LE FOTO DI PIZZI ALLA PRIMA DI “QUANDO C’ERA BERLINGUER”

Oggi quasi del tutto dimenticato. Il secondo fu Enrico Berlinguer, che precorse la trasformazione del Pci in partito democratico della sinistra. Di lui ricorrono i trent’anni dalla morte (11 giugno 1984).

QUANDO C’ERA BERLINGUER

Gli eventi traumatici accaduti nella nostra storia recente (caduta del comunismo, fine dei partiti della prima repubblica, trionfo dei media, leaderizzazione della politica, depoliticizzazione dei cittadini) consentono oggi un bilancio disinteressato e spassionato. Forse non ci aiuterà molto il documentario di Walter Veltroni, che sarà nelle sale a fine mese: «Quando c’era Berlinguer». Una successione di luoghi, testimonianze e interviste, che pongono al centro, non il Personaggio, ma il «quando», cioè il suo tempo. Allora, infatti, «c’era», mentre ora quasi tutti i giovani, interpellati nel film, hanno mostrato di ignorarlo. Dunque non un giudizio critico, ma un ricordo sentimentale: «Portatevi dietro il fazzoletto», ci suggerisce Veltroni.

CHI C’ERA ALLA PRIMA DEL DOCUMENTARIO DI VELTRONI “QUANDO C’ERA BERLINGUER”.LE FOTO

MERITI E LIMITI DI BERLINGUER

Di Berlinguer non è difficile mettere in luce (lo hanno fatto storici attenti come Giorgio Galli e Massimo Salvadori, Giuseppe Fiori e Francesco Barbagallo) sia i meriti che i limiti. Politico per convinzione, anzi per vocazione, si votò alla causa comunista con un impegno e un lavoro senza sosta, che certo fu tra le cause della prematura scomparsa. La sua sincera e altruista vocazione politica dovette adattarsi a un Pci ancora staliniano. Fu (o mostrò di essere) togliattiano e, nel 1949, divenne segretario del Giovani comunisti. Poi la continua salita del «delfino di Togliatti», sino a divenire segretario del Pci e portarlo al suo massimo storico (34,4 % nel 1976) con il progetto di un socialismo italiano da realizzare democraticamente, anche con un «compromesso» con i movimenti cattolici.

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LE CONTRADDIZIONI

Tutta la sua attività fu paradossalmente ambivalente: da un lato gesti di fedeltà al comunismo, dall’altro prese di distanza dall’Urss, anche se certo è una esagerazione parlare di «strappo»: il Pci lo fece solo dopo la caduta del comunismo, quando cioè non c’era più niente da strappare. È vero, tuttavia, che Berlinguer non era ben visto: nel 1973, in Bulgaria, un camion militare investì la sua macchina e si salvò per miracolo (incidente o Kgb?). Giustificò l’invasione della Ungheria, ma condannò quella della Cecoslovacchia; operò per un incontro tra operai e produttori, ma si schierò contro la marcia dei 40 mila a Torino; esaltò l’ombrello della Nato come difesa della libertà, ma santificò i Vietcong nonostante conoscesse i loro genocidi; nascose il terrorismo rosso degli anni Settanta, poi lo chiamò «fascista»; prese a lungo l’oro di Mosca, che rifiutò solo negli ultimi anni; parlava del «valore assoluto» della libertà di stampa, ma denunciò Forattini per una vignetta satirica. Fu opportunismo? prudenza politica? predicava bene e razzolava male?

CONSAPEVOLEZZE  E INTUIZIONI

Di certo Berlinguer ebbe la piena consapevolezza del difficile momento in cui l’Italia stava entrando e anche l’intuizione che da questa crisi non si poteva uscire con delle riforme politiche, ma era necessario un capovolgimento antropologico: «La questione morale (scriveva) è la prima ed essenziale, perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità e la tenuta del regime democratico. Essa è il centro del problema italiano». E la collegava al recupero di una «austerità». In tal senso l’intervista a Repubblica del 28 luglio 1981 è il suo testamento politico, apprezzabile anche per chi non guarda a sinistra: «I partiti sono diventati macchine di potere e clientela, hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni, a partire dall’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato». E a queste spoliazioni e ruberie vedeva collegati metodi volgari e offensivi di lotta. Non così all’inizio della Repubblica: «Tra avversari ci si stimava. De Gasperi stimava Togliatti e Nenni, e, al di là delle asprezze polemiche, n’era ricambiato».

UN’ICONA PER IL POPOLO

Tutti i partiti corrotti, meno uno, il Pci: «Le occasioni le abbiamo avute anche noi, ma ladri non siamo diventati». Impudenza o ingenuità? Trent’anni dopo non solo le speranze di Berlinguer sono cadute e la situazione è ancora peggiorata, ma anche il suo partito e quelli da esso derivati sono stati coinvolti in quelle grosse ruberie, che il moralismo di Enrico condannava aspramente. Troppe per essere elencate. Timido e cupo, impacciato e silente, per il popolo ancora rosso era una icona (un milione di persone al funerale): «Berlinguer non è una Madonna», ironizzava Scalfari. Tuttavia aveva ragione Montanelli: «Può anche aver commesso degli errori: mai disonestà o bassezze».

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